Sergio Rizzo. La mattina entrava in banca vestito da sceriffo con cappello da cowboy e stellone sul petto. Ma non si trovava negli States e non faceva il poliziotto. In quella italianissima banca era solo un impiegato. Così fu licenziato: fece causa ma non ottenne il reintegro. Sfortunato. Fosse capitato con quel giudice di Monza che aveva revocato il licenziamento del dipendente di una ditta che si ostinava a presentarsi tutti i giorni con i pantaloncini corti, sarebbe andata diversamente.
Cioè come al solito. Con la bilancia dell’articolo 18 che quando si arriva davanti al magistrato, argomenta l’avvocato giuslavorista Andrea Del Re, pende quasi sempre dalla parte del lavoratore. Anche in casi che davvero non ti aspetti.
Fece scuola quello dell’alcolista cronico che non solo non andava a lavorare, ma nemmeno avvertiva l’azienda. Il giudice lo reintegrò perché «l’assenza dal servizio e l’inosservanza dell’obbligo di comunicazione non possono costituire giustificato motivo soggettivo di licenziamento quando son dovute non già a stati di ubriachezza, bensì a un danno cerebrale costituente l’esito della prolungata assunzione dell’alcol e dei suoi effetti». Siccome era sempre ubriaco non era dunque capace di intendere e volere, quindi non licenziabile. Il celebre giurista Giuseppe Pera la marchiò come la sentenza dell’«ubriaco fisso». Caso per nulla paradossale, percorrendo la lunga galleria degli orrori giudiziari che Del Re ha pubblicato nel saggio collettivo «Art.18: la reintegrazione al lavoro», curato da Massimo Bornengo a Antonio Orazi.
C’è l’infermiere che picchia un paziente e il giudice intima alla clinica di ridargli il posto con la motivazione che «si è trattato di un fatto isolato ed eccezionale in relazione a un paziente particolare», aggiungendo che «l’aver perso per una volta il controllo delle proprie azioni non può giustificare quella che rimane un’estrema ratio». C’è il vigile del fuoco colto a rapinare una banca, sospeso dal servizio e riammesso con il pagamento degli arretrati da un magistrato appassionato di cinema che s’indigna per la decisione ritenendo «vergognoso rovinare prima di una condanna una persona e la sua famiglia per una sostanziale esigenza di immagine, di apparenza dell’istituzione, in assenza di un concreto pericolo in ambiente lavorativo e nella società…». Tanto più ricordando, scrive testualmente nella sentenza, il film «“Rapina a mano armata” di Stanley Kubrick, risalente al lontano 1956 nel quale il protagonista (Sterling Haiden) dice alla fidanzata: “Vedi, nessuno di loro è un vero e proprio criminale, hanno tutti un lavoro e apparentemente conducono una vita normale, ma hanno i loro problemi”».
C’è l’operaio che mostra i genitali ai suoi colleghi e viene reintegrato, «tenuto conto che il gesto esibizionistico era compiuto in assenza di personale femminile, non era stato dettato da istinti sessuali e, pur nella sua volgarità e indecenza, non aveva integrato gli estremi del delitto di atti osceni». E c’è chi, avendo invece molestato due compagne di lavoro «compiendo atti esibizionistici, in particolare esibendo i genitali ad una di loro», si salva dal licenziamento perché il giudice lo considera «provvedimento disciplinare sproporzionato».
Per non parlare del più classico dei classici. Ovvero, del dipendente licenziato perché scoperto a svolgere un secondo lavoro durante le assenze per malattia e regolarmente reintegrato. E grazie a un precedente che ha da poco compiuto ventotto anni. Una sentenza del pretore di Viareggio nella quale si afferma: «È illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore che, in costanza di malattia, ha svolto attività lavorativa ma nessun danno ha arrecato al datore di lavoro, in quanto la suddetta malattia richiedeva oltre che le cure anche la necessità del lavoratore di vivere con familiari e amici e di trovare interesse nell’ambiente esterno, cosicché l’attività svolta era compatibile con lo stato di malattia la cui guarigione non solo non è stata ritardata, ma è stata anche accelerata»
Il Corriere della Sera – 31 ottobre 2014