Stefano Simonetti, Il Sole 24 Ore sanità. Lo scorso 21 gennaio su questo sito è stata commentata una pronuncia della Suprema Corte che mi sembra particolarmente indicata per tornare su di una tematica all’ordine del giorno, quella delle violenze nei confronti dei sanitari. Il fatto, in estrema sintesi, riguardava un medico di continuità assistenziale ritenuto responsabile del reato di omissione di atti di ufficio (art. 328 c. p.) per essersi rifiutato di recarsi presso il domicilio di una paziente anziana, impossibilitata a muoversi e con gravi difficoltà respiratorie. Così ha deciso la Corte di Cassazione, sez. VI penale, con la sentenza n. 44057 del 25 novembre 2022. L’interesse di cui parlavo non risiede nella valutazione del comportamento del medico, bensì nel fatto che la Cassazione ha confermato la tesi che quella specifica condotta è stata attuata rivestendo la qualifica di pubblico ufficiale.
Per cui mi sembra logico che, se un medico o un infermiere è pubblico ufficiale quando è egli stesso a commettere un reato, lo è altrettanto quando del reato ne è la vittima. Solo pochi giorni, prima avevo scritto – sempre su questo sito – che “….. ha ragione il segretario nazionale dell’ANAAO a proporre la qualifica di pubblico ufficiale, ma tutta la giurisprudenza da tempo ha avallato questa previsione, nel senso che i medici sono “già” pubblici ufficiali”. Inoltre, è di un solo mese prima un’altra sentenza della Cassazione che ha ritenuto che schiaffeggiare una infermiera che ricordava ad una parente in visita l’ora di uscita dal reparto, non costituisce violenza privata ma un reato ben preciso e la signora violenta è stata condannata per i delitti di resistenza a pubblico ufficiale, lesioni personali aggravate e interruzione di pubblico servizio (Corte di Cassazione penale, sez. VI, sentenza n. 39320 del 18 ottobre 2022).
Per approfondire la questione, facciamo un passo indietro. Nel dibattito che portò alla approvazione della legge 113/2020, l’allora ministra della Salute dichiarò tra le possibili soluzioni non era possibile attuare quella di rendere tutti i medici pubblici ufficiali in quanto, a fronte dei benefici conseguenti all’attribuzione di tale qualifica, il personale medico e sanitario si sarebbe visto addossare anche un insieme di oneri e incombenze connessi alle funzioni di pubblico ufficiale non coerenti o comunque esorbitanti rispetto al proprio ruolo. Valutazioni che, con il senno di poi, si sono rivelate superficiali e fuorvianti, visto tra l’altro che quando commettono reati specifici i sanitari sono sempre ritenuti pubblici ufficiali.
Infatti i medici “sono” già pubblici ufficiali, quantomeno tutti quelli esposti alle violenze di cui si parla: i 120.000 medici dipendenti del S.s.n. e i 70.000 convenzionati, cioè la stragrande maggioranza dei medici italiani. A supporto della qualificazione di pubblico ufficiale basterebbe ricordare che i medici a rapporto di dipendenza sono tutti dirigenti e nel nostro ordinamento giuridico immaginare che un dirigente pubblico non sia pubblico ufficiale è irreale. Naturalmente queste riflessioni valgono anche per i veterinari e gli altri dirigenti sanitari. Ma l’argomento merita in ogni caso una ricostruzione del quadro normativo di riferimento.
Partiamo dall’assunto dell’art. 357 del codice penale il quale prevede che sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. Da parte sua la dottrina ha inserito tra i pubblici ufficiali tutti i soggetti muniti di potere di certificazione. Inoltre la Corte di Cassazione, sez. VI penale, con sentenza n. 35836 dell’1.10.2007 ha riconosciuto pienamente la qualificazione di pubblico ufficiale per la sussistenza dei reati di corruzione (per intenderci, i fatti riguardavano il caso Poggi Longostrevi). Una costante giurisprudenza ha chiarito che “il medico convenzionato con il servizio pubblico svolge la sua attività per mezzo di poteri pubblicistici di certificazione che estrinsecano nella diagnosi e nella correlativa prescrizione di esami e prestazioni alla cui erogazione il cittadino ha diritto presso le strutture pubbliche o private convenzionate” (Cassazione Penale a Sezioni Unite, sentenze n. 5 del 27.03.1992 e n. 2 del 16.04.1988; sez. V, sentenze n. 7234 del 5.7.1991 e n. 2258 del 29.1.2007; sez. VI, sentenza n. 4072 del 7.4.1994; sez.I, sentenza n. 2207 del 3.3.1995).
Uno dei primi casi accaduti – a quei tempi molto più rari – riguardava un medico di medicina generale che era stato oggetto a Brescia di un’aggressione da parte di un paziente al quale aveva rifiutato un certificato. Per i reati generici di lesioni personali o violenza privata, se la vittima è un pubblico ufficiale sussiste un’aggravante. Per chi commette nei confronti di un pubblico ufficiale i reati di violenza, minacce o resistenza il codice penale prevede pene maggiorate fino a 5 anni di reclusione complessivi; inoltre il profilo di oltraggio-offesa all’onore esiste solo per il pubblico ufficiale ed è punito con 3 anni di reclusione. A fronte di queste prerogative a difesa della persona corrispondono peraltro altrettanti oneri, le “incombenze”, a suo tempo citate da Grillo; forse si riferiva al fatto che tutti i pubblici ufficiali devono denunciare all’autorità giudiziaria la notizia di reati perseguibili d’ufficio (art. 361 del codice penale).
Nei confronti di medici e infermieri, la distinzione tra pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio è, in buona sostanza, meramente formale perché nel codice penale tutti gli articoli relativi ai delitti contro la pubblica amministrazione (dal 314 al 360) contemplano entrambe le figure con la sola eccezione dei due tipi di corruzione (art. 318 e 319) per i quali, in ogni caso, l’art. 320 prevede una sanzione, anche se ridotta. Nell’ambito dello scenario che qui interessa – quello dei delitti dei privati contro la Pubblica Amministrazione – le previsioni del codice penale sono identiche per la violenza o minaccia a un pubblico ufficiale (art. 336) e la resistenza a un pubblico ufficiale (art. 337) mentre l’unico reato non tabellato per l’incaricato di pubblico servizio è quello dell’oltraggio a pubblico ufficiale (art. 341-bis).
Riassumendo, l’attribuzione del ruolo di pubblico ufficiale comporta maggiori responsabilità penali per il medico nell’esercizio delle sue funzioni pubbliche, in particolare nei casi di reati contro la pubblica amministrazione, procedibili d’ufficio (art. 50 c.p.p.), quali ad esempio: omissione o rifiuto di atti d’ufficio (art. 328 c.p.), abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), rivelazione di segreto d’ufficio (art. 326 c.p.), corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.), truffa ai danni di un ente pubblico (art. 640 c.p.), omessa denuncia di reato perseguibile d’ufficio (art. 361 c.p.), falso ideologico in atto pubblico (art. 479 c.p.) e in certificazione amministrativa (art. 480 c.p.), peculato (art. 316 c.p.).
A maggiore tutela del medico pubblico ufficiale, sono però perseguibili d’ufficio anche i reati di cui può essere vittima, quali ad esempio: violenza o minaccia ad un pubblico ufficiale (art. 336 c.p.), oltraggio ad un pubblico ufficiale (art. 341 c.p.) e calunnia (art. 368 c.p.). Rimane invece procedibile a querela di parte il reato di diffamazione, anche se a mezzo di stampa (art. 595-597 c.p.).
Le professioni sanitarie hanno natura pubblicistica come testimonia l’esistenza degli Ordini professionali che sono, appunto, enti pubblici vigilati dal Ministero della Salute. I medici svolgono un’attività sociale di pubblico interesse che comporta in molte situazioni la collaborazione con la Pubblica Amministrazione (Ministeri, INPS, INAIL, enti locali, ecc.) e con l’Autorità Giudiziaria. Sono evidenti le funzioni di pubblico ufficiale: 1) del Direttore Sanitario di un ospedale pubblico, al quale è riservata nell’organizzazione dell’istituto per il conseguimento dei fini pubblici una funzione primaria che si concretizza in una serie di poteri di autorità e direzione; 2) dei medici ospedalieri in quanto, indipendentemente dall’incarico ricoperto, svolgono funzioni di carattere strettamente diagnostico e terapeutico unitamente all’esercizio di un’attività autoritativa, che impegna l’azienda o l’ente dal quale dipendono; 3) dei medici e dei veterinari del Dipartimento della prevenzione laddove i poteri autoritativi di vigilanza e controllo sono preminenti e molti di loro sono addirittura Ufficiali di polizia giudiziaria; 4) del medico di medicina generale, il cosiddetto medico di famiglia, il quale compie anche una attività di natura amministrativa disciplinata da norme di ordine pubblico e concorre a formare e a manifestare la volontà della Pubblica Amministrazione in materia di pubblica assistenza sanitaria, esercitando in suo nome poteri autoritativi e certificativi con riferimento alla compilazione di ricette, impegnative di cura, ricoveri e attestazioni di malattia con effetti che incidono sul SSN e sulla collettività. In conclusione, il problema della qualificazione soggettiva dei sanitari come pubblici ufficiali non si pone con riguardo ai caratteri propri e ai singoli momenti in cui l’attività stessa viene concretamente esercitata, con l’unica precisazione che non sono pubblici ufficiali né incaricati di pubblico servizio i medici ospedalieri che svolgono attività intramoenia, data la natura delle prestazioni che non concorrono a formare o a manifestare la volontà della Pubblica amministrazione. Analogamente il medico convenzionato può svolgere anche attività professionale privata, ai sensi del vigente ACN, nello svolgimento della quale è qualificabile, ai fini della legge penale, come esercente un servizio di pubblica necessità (art. 359 cp).
Tornando – per concludere – al dibattito sulla qualifica di pubblico ufficiale, si potrebbe ritenere che in questi anni sia sorto un equivoco: non tutti i medici e gli infermieri sono o dovrebbero essere pubblici ufficiali ma soltanto quelli che sono in regime di dipendenza o convenzione con il S.s.n. e nell’espletamento delle loro funzioni istituzionali. Quello che si potrebbe, allora, proporre è una norma legislativa che lo ribadisca in modo esplicito e inequivocabile, con un principio percepibile da tutti e cioè che aggredire verbalmente o fisicamente un medico o un infermiere in servizio è, per le conseguenze penali, esattamente come aggredire un poliziotto o un carabiniere. La norma potrebbe essere del seguente tenore: “Gli esercenti le professioni sanitarie dipendenti o convenzionati con il Servizio sanitario nazionale, nell’espletamento delle loro funzioni correlate alla erogazione dei livelli essenziali di assistenza di cui alla legislazione vigente, sono pubblici ufficiali ai sensi e per gli effetti dell’art. 357 del codice penale”. La norma dovrebbe riguardare i sanitari in regime di dipendenza o convenzione, i docenti universitari, i medici degli EPNE e i medici militari; ma non i liberi professionisti, i dipendenti di case di cura private incluse quelle accreditate, per i quali occorre verificare di volta in volta la specifica attività espletata e il contesto in cui operano. E qui, forse, sta il problema.