Sono già 350 le Case di comunità che hanno aperto i battenti e altre ne continueranno ad aprire nei prossimi due anni per arrivare entro giugno del 2026 alla quota minima prevista dal Pnrr di 1.038 in tutta Italia. Anche se le Regioni puntano ad aprirne con altri fondi fino a 1.421. Una buona notizia per gli italiani che finalmente potranno beneficiare di visite, esami e servizi più vicini a casa e senza dover ricorrere, come troppo spesso accade, ai pronto soccorso per avere una risposta. Peccato però che i pazienti che bussano a queste nuovissime strutture immaginate durante il Covid per avvicinare di più il Ssn agli italiani con servizi h24 sette giorni su sette rischiano di trovare poco o niente di quello che si aspettano perché in molte case di comunità la presenza di un medico non c’è. Oppure c’è, ma solo per poche ore al giorno: in oltre un terzo (120) delle 350 case di comunità già aperte al momento non è prevista una presenza di pediatri o medici di famiglia, mentre in altre 56 strutture la presenza medica è prevista al momento per meno di 30 ore a settimana (al massimo 4-5 ore al giorno). In pratica in metà case di comunità i servizi sono soprattutto di tipo infermieristico (previsti anche psicologi e assistenti sociali), mentre in altre 60 la presenza di medici di famiglia e pediatri varia tra le 30 e le 49 ore e in 112 tra 50 e 60 ore a settimana. Tra l’altro, delle 350 strutture gia aperte meno della metà (148) sono aperte sette giorni su sette e solo 110 anche h24, mentre 61 offrono servizi 6 giorni su 7 e ben 141 meno di 6 giorni. Se queste sono le premesse della nuova Sanità territoriale su cui il Pnrr investe oltre 7 miliardi tra nuove strutture, cure domiciliari e telemedicina bisogna allora cominciare a preoccuparsi che si rischi di trovarci tra due anni – quando dovranno essere a regime tutte – con delle “scatole vuote” con poco personale e servizi contati per i cittadini.
Questo almeno emerge dall’ultimo monitoraggio sull’attuazione della nuova Sanità territoriale appena arrivato sul tavolo del ministro della Salute Orazio Schillaci e aggiornato al 31 dicembre scorso, che riporta anche 105 ospedali di comunità aperti e 103 Centrali territoriali operative, oltre alle 350 case di comunità (presenti soprattutto in Lombardia, Emilia e Veneto). Il nodo però non è più tanto quello del rispetto dei tempi nel costruire i muri delle nuove strutture – soprattutto dopo lo stralcio di una parte di queste deciso con l’ok di Bruxelles – ma quanto il fatto di popolarle del personale necessario per offrire i servizi che sono previsti. La scorsa manovra stanzia 250 milioni per il 2025 e 350 milioni dal 2026 per assumere il personale sul territorio. Ma intanto c’è da trovare subito medici e infermieri per le strutture aperte e tra i nodi fondamentali mai sciolti finora c’è quello del ruolo da assegnare ai medici di famiglia che dovrebbero essere tra le figure cardine: tramontato il tentativo chiesto dalle Regioni di assumere i giovani medici delle cure primarie come dipendenti per farli lavorare nelle case di comunità, sono oltre tre anni che si discute come “vincolarli” a lavorare almeno qualche ora nelle nuove strutture (si veda articolo a fianco).
Ma cosa devono fare le Case di comunità? Le più grandi (quelle «hub») – secondo i requisiti del Dm 77 – devono garantire una «presenza medica» 24 ore al giorno sette giorni su sette, insieme agli infermieri (12 ore al giorno per 7 giorni). Tra le altre figure anche specialisti come psicologi, logopedisti, fisioterapisti, tecnici della riabilitazione e assistenti sociali. Qui gli italiani – soprattutto gli oltre 14 milioni di malati cronici – potranno ottenere, almeno sulla carta, oltre alla classica visita anche servizi diagnostici primari con apparecchiature come ecografi, elettrocardiografi, retinografi, oct, spirometri. Previsti anche punti per i prelievi e per gli screening oltre che per le vaccinazioni. L’idea insomma è quella di farle diventare anche un’alternativa al pronto soccorso per i pazienti non urgenti. Qui si dovrebbero trovare anche i servizi classici di prenotazione di visite e ricoveri (il Cup). Addirittura già da quest’anno saranno attivate migliaia di postazioni con le quali erogare le prestazioni di telemedicina (il Pnrr investe 1,5 miliardi). Ma la domanda sorge spontanea: ci sarà almeno un medico che accenderà il pc per far partire la televisita?
Marzio Bartoloni – Il Sole 24 Ore