Quasi tre quarti delle domande di Ape sociale presentate a luglio respinte dall’Inps: oltre 46 mila su 66 mila. Il 70% circa. L’allarme arriva dai sindacati, a pochi giorni dall’ufficializzazione della graduatoria di chi potrà andare in pensione a 63 anni, quattro anni prima, prevista per il 15 ottobre. Ed è incluso nelle categorie di lavoratori disagiati, perché precoci (hanno iniziato da minorenni) o disoccupati, malati, con parenti invalidi. Sotto accusa l’estrema rigidità usata dall’Inps nell’esame delle richieste. Inps che però si difende, trincerandosi nel pieno rispetto della legge. L’impasse burocratico rischia ora di diventare una grana politica di non poco conto.
L’Ape sociale è la misura simbolo del pacchetto pensioni da 4 miliardi in tre anni approvato nella manovra 2016 dal governo Renzi. Finanziata dallo Stato, pubblicizzata come misura assistenziale per i più deboli, affidata per la piena implementazione all’esecutivo Gentiloni, finisce ora nel tritacarne di uno scontro che gli stessi protagonisti faticano ad arginare. Il ministero del Lavoro non si esprime in chiaro, ma i retroscena raccontano di un dito puntato dritto contro l’Inps guidata da Tito Boeri, colpevole di non aver saputo applicare il decreto attuativo dell’Ape sociale. L’Istituto di previdenza sceglie la strada del comunicato, per rispondere alle critiche dei sindacati. In realtà alza le barricate contro il ministero. In questo come in altri casi «l’Inps applica le leggi e regolamenti vigenti a seguito di approfondite istruttorie condotte coi ministeri vigilanti». E «la circolare numero 100 del 16 giugno 2017, che fornisce istruzioni per l’applicazione dell’Ape sociale, è stata condivisa nel suo impianto generale dal ministero del Lavoro». Semmai la colpa – si sussurra – è tutta in quel decreto ministeriale scritto male. Tutti contro tutti.
Sia come sia, Palazzo Chigi è in allarme. Uno scivolone di questa portata sull’Ape sociale, tre quarti delle domande rigettate con le elezioni politiche alle porte, non è ammissibile. In ballo c’è la credibilità del governo nei confronti di pensionati più deboli, illusi e poi delusi. Non è un caso che anche l’Ape volontaria – la versione a pagamento del meccanismo per anticipare la pensione grazie a un prestito ventennale tutto a carico del pensionando – sia ancora in alto mare, dopo mesi di tira e molla. L’ennesimo stop viene attribuito a un fermo prolungato del decreto attuativo alla Corte dei Conti. Ma a questo punto non si esclude che il probabile slittamento al 2018 – come pure circolato, senza smentita, in questi giorni – sia dovuto al timore di affidarsi a un Inps disorganizzato, non in grado di mettere in moto la complessa macchina previdenziale così come assicurato.
I casi di domande rifiutate, messe ieri online, dall’Inca Cgil sono disarmanti. Periodi lavorativi trascorsi all’estero – in Germania, Francia, Svizzera – non riconosciuti, perché la misura è assistenziale. Certificazione di attività gravosa firmata dall’azienda ritenuta incoerente con i premi assicurativi versati (ma senza che l’Inail sia stato interpellato). Lettera di licenziamento non allegata per dimostrare la disoccupazione. Ape negata perché dopo la fine della Naspi, il lavoratore ha incassato 30 euro in voucher (e lo può fare senza perdere lo status di disoccupato).
Su tutto l’opacità del no dell’Inps, rinchiuso in formule standard precotte: «requisiti mancanti», senza dire quali. Rendendo complicata pure la domanda di riesame.
Repubblica – 13 ottobre 2017