Un piano nazionale contro l’antibiotico resistenza, che dovrebbe arrivare a breve, un approccio One Health per abbattere l’utilizzo di farmaci negli allevamenti con un ‘occhio attento a modelli virtuosi come quello Olandese. Ma anche politiche di appropriatezza nell’utilizzo mirato di antibiotici, tra questi il piano “salva-carbapenemi”. Sono queste le armi sul piatto per contrastare l’allarmante fenomeno dell’antibiotico resistenza, che vede il nostro paese in testa nella classifica Paesi europei con percentuali di resistenza più elevate, dopo Grecia e Turchia.
I temi sono stati al centro dell’evento “Stato dell’arte dell’antimicrobial stewardship: esperienze regionali a confronto” che si è tenuto a Roma e a Milano, nei giorni scorsi, con il supporto non condizionato di Msd. Due occasioni di confronto tra Istituzioni, clinici, microbiologi e manager della salute a livello regionale per fare il punto sullo stato dell’arte in tema di antimicrobial stewardship e individuare percorsi condivisi per lo sviluppo di modelli virtuosi.
A puntare i riflettori sul Piano nazionale per la resistenza antimicrobica, che sarà un punto di svolta nella lotta all’antibiotico resistenza, Stefania Iannazzo del Dipartimento Prevenzione e Innovazione del Ministero della Salute. La bozza “è praticamente finita”, ha sottolineato, anche se manca solo un tassello per completare il puzzle che potrebbe consentire all’Italia di iniziare a scostarsi dal triste primato che la vede tra i peggiori Paesi europei in materia di antimicrobico-resistenza. Un mattoncino senza il quale tutte le migliori intenzioni rimangono utopia: il fattore sostenibilità. Un aspetto sul quale stanno discutendo il Ministero della salute, l’Aifa, l’Iss e le Regioni, insieme alle società scientifiche.
“La bozza del Piano è praticamente finita – ha spiegato Iannazzo – stiamo facendo delle valutazioni economiche che servono poi nella fase di interlocuzione con la direzione generale della programmazione e con il Ministero dell’economia e delle finanze. A seguire il Piano dovrà essere approvato in Conferenza Stato-Regioni”. La necessità ora è quella di premere l’acceleratore per arrivare il prima possibile all’attuazione del Piano perché la piaga del terzo millennio non aspetta i tempi della burocrazia per mietere le sue vittime: “Se non venisse applicata nessuna strategia per contrastare il fenomeno – ha aggiunto – da qui a pochi anni non sarebbe più possibile eseguire persino interventi chirurgici attualmente di routine, come l’artroprotesi o i trapianti d’organo o di midollo”.
L’Italia è maglia nera, ma il problema è globale. L’Italia infatti è tra i Paesi europei con percentuali di resistenza più elevate. Terza nella sfortunata classifica, dopo Grecia e Turchia, in Italia il fenomeno è andato raddoppiando passando da una media del 16,17% nel 2005 al 33-34% in meno di 10 anni, tanto che oggi fino a 1 paziente su 10 va incontro a un’infezione batterica multiresistente. Tuttavia, il problema è globale e le previsioni in caso di mancato intervento sono tutto fuorché rosee: se attualmente nel mondo ogni anno 700 mila persone perdono la vita a causa di germi multi-resistenti, in assenza di adeguate misure di contrasto, si stima che entro il 2050 si arriverà a 10 mln di vittime.
Proprio per questi motivi lo scorso settembre le Nazioni unite hanno approvato una risoluzione globale che muove come obiettivo quello di contrastare l’antimicrobico-resistenza, un problema che ha destato l’attenzione non solo delle potenze del G7, ma anche del G20, “tavoli molto forti dal punto di vista politico ed economico, con una forte di capacità di traino e di indirizzare le decisioni politiche anche da Paesi al di fuori di questi circuiti” ha ricordato Iannazzo. Nonostante questo, purtroppo in Italia attualmente “manca un piano strategico operativo approvato e quindi una governance nazionale – ha concluso Iannazzo – la sorveglianza nazionale sull’antibiotico-resistenza è finanziata solo attraverso progetti contingentati del Ccm (Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie) quindi non c’è alcuna garanzia di stabilità a lungo termine. Attraverso il Piano stiamo cercando di fare in modo che si passi ad una sorveglianza routinaria e quindi che abbia una sua autonomia”.
L’approccio One Health e il modello Olandese. A rendere ancora più complessa la lotta all’antibiotico resistenza è poi la quantità di farmaci utilizzati sugli animali da allevamento. In Italia è di 360 mg/Pcu, dove la Pcu (Population Correction Unit) indica la quantità di principio attivo utilizzato per unità di bestiame, “cinque volte superiore rispetto ai numeri dell’Olanda con i suoi 68 mg/Pcu” ha ricordato Luca Busani, del Dipartimento di malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità. E il passo dall’allevamento alla tavola è breve ma non solo, perché tutto il sistema in cui viviamo è profondamente connesso. Proprio per questo motivo il dato rappresenta un segnale d’allarme che, insieme agli altri, non dev’essere ignorato: l’approccio d’intervento dev’essere One Health, ossia proteggere la salute pubblica controllando l’interfaccia tra persone, animali e ambiente, su tutti i piani e livelli.
“La circolazione dei batteri resistenti agli antibiotici, quindi dei geni di antibiotico-resistenza coinvolge tutti i settori in cui gli antibiotici sono impiegati: non solo umano, ma anche zootecnico, agricolo e via dicendo – ha sottolineato Busani – i geni di resistenza generati nel settore zootecnico possono trasmettersi direttamente per contatto, o indirettamente attraverso alimenti e ambienti. Il sistema di allevamento industriale fornisce la condizione ideale per l’amplificazione di geni che provengono dall’uomo o dall’ambiente”. L’approccio One health può quindi aiutare nel localizzare meglio il settore di intervento. È promosso da tutte le istituzioni internazionali “perché consente di definire priorità, consente di vedere obiettivi e condividerli nei vari settori” prosegue Busani.
Il modello olandese. Un modello che si è rivelato efficace nella riduzione dell’utilizzo di farmaci in zootecnia è quello olandese. Si è partiti con una crescente attenzione della popolazione al problema della resistenza attraverso l’adozione di politiche di controllo severe “inizialmente gli allevatori che si presentavano in ospedale con sintomi lievi venivano messi in isolamento” ha concluso Busani.
Quest’attenzione ha favorito la generazione di alleanze partnership pubblico-privato, forti motori che hanno spinto la politica a definire strategie di intervento e modelli di riduzione. “Nel 2010 si era deciso di ridurre del 50% l’utilizzo di antibiotici nel settore zootecnico e nel 2012 il target è stato raggiunto. Subito dopo – ha concluso l’esperto – è stato settato un nuovo target con lo scopo di arrivare alla riduzione dell’utilizzo di antibiotici del 70% e nel 2014 si è arrivati a 68mg/Pcu”.
Anche se rimane da chiarire l’impatto di questo abbattimento dell’utilizzo di farmaci sulla resistenza agli antibiotici, intanto si è cominciato ad agire per ridurre i consumi che favoriscono l’insorgenza delle resistenze. Tra gli esempi più eclatanti la resistenza alla vancomicina, nata negli allevamenti, come ha ricordato Maurizio Sanguinetti, Policlinico Gemelli, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma. Un altro grande problema è che germi resistenti che prima si trovavano solo a livello nosocomiale, ora si stanno facendo strada nelle comunità: “Non è più un problema che coinvolge solo la pratica ospedaliera e non ci si aspettava si andasse incontro a questo fenomeno – ha concluso Sanguinetti – si sta trasferendo questa problematica di resistenza dall’ospedale alla comunità. Questo è avvenuto per lo staphylococcus aureus ma sta succedendo anche per microorganismi gram negativi come la klebsiella pneumoniae”.
Il piano “salva-carbapenemi”. L’uso appropriato degli antibiotici nell’ottica dell’antimicrobial stewardship è il cardine delle strategie in grado di contrastare la diffusione dell’antimicrobico-resistenza. In Italia, attualmente, la Klebsiella resistente ai carbapenemi e lo stafiloccoco resistente sono talmente diffusi da poter essere considerati endemici. Ma ha affermato Pierluigi Viale, Direttore dell’Unità Operativa di Malattie Infettive del Policlinico Sant’Orsola-Malpighi di Bologna: “la partita di risparmiare carbapenemi a tutti i costi è pericolosa. Basterebbe non prescriverli per rientrare tra gli ospedali con il minor consumo di carbapenemici, ma non si può perché sono troppo importanti. È più corretto guardare il dato di appropriatezza che se è tale porterà comunque a ridurre le prescrizioni. Il vero risparmio sarà la riduzione dei tempi di degenza”.
L’epidemia italiana di multiresistenti “è stata causata anche dal misuso dei carbapenemici quindi bisogna utilizzare delle strategie a livello ospedaliero – ha aggiunto Carlo Tascini, Ospedale Cotugno, Ao dei Colli Napoli – Le alternative sono i beta-lattamici più gli inibitori delle beta lattamasi come l’amoxicillina clavulanato, la piperacillina/tazobactam e il ceftolozano/tazobactam. Con questi farmaci noi dovremmo cercare di curare le infezioni da escherichia coli produttori di esbl, klebsiella produttrice di esbl e anche di pseudomonas multiresistenti. Ridurre l’uso dei carbapenemici può essere l’inizio della lotta alla diffusione dei germi produttori di carbapenemasi”.
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