La Stampa, di Anthony Fauci. Sebbene sia riluttante a usare l’abusata espressione “sembra ieri”, mi sento così nel momento in cui mi accingo a lasciare l’Istituto nazionale di sanità dopo oltre cinquant’anni. Ripensando alla mia carriera, mi rendo conto che alcuni insegnamenti potrebbero tornare utili agli scienziati e agli operatori sanitari della prossima generazione che saranno chiamati ad affrontare e risolvere le sfide più impreviste di sanità pubblica che inevitabilmente si presenteranno.
A 81 anni ricordo ancora distintamente la prima volta in cui, nel luglio 1968, arrivai in auto nel bucolico campus del Nhi (National Health Institute, Istituto sanitario nazionale) di Bethesda, in Maryland, da neo-medico ventisettenne che aveva appena completato la specializzazione a New York City. All’epoca avevo una motivazione e una passione divoranti, volevo diventare il medico più esperto possibile, dedito a offrire le cure migliori ai miei pazienti. Tutto ciò è ancora parte integrante della mia identità, naturalmente, ma all’epoca non mi resi conto di quanto alcune circostanze impreviste avrebbero influenzato profondamente la direzione della mia carriera e della mia vita. Molto presto, infatti, avrei imparato ad aspettarmi l’inaspettato.
Condivido qui la mia storia, fatta di amore per la scienza e la scoperta, nella speranza di ispirare la prossima generazione che entrerà a fare carriera in campo sanitario e di aiutarla a mantenere la rotta, a prescindere dalle sfide e dalla sorprese che dovessero presentarsi.
Fu durante il periodo della mia specializzazione che rimasi affascinato per la prima volta dall’interazione delle malattie infettive e dell’immunologia umana, nascente relativamente da poco ma già fiorente. Mentre mi prendevo cura di molti pazienti con infezioni comuni ma anche misteriose, divenne chiaro che i medici e gli altri operatori sanitari avevano bisogno di maggiori strumenti per effettuare diagnosi, prevenire e curare le malattie.
Per far confluire questi interessi, accettai una borsa di studio presso l’Istituto nazionale di Allergologia e di Malattie infettive dell’Istituto sanitario nazionale, per imparare le complesse modalità con le quali le cellule e altri componenti del sistema immunitario ci proteggono dalle malattie infettive. Così facendo, avrei seguito la tradizione del Nih della ricerca dal lavoro sperimentale alla pratica clinica, trasformando in cure le scoperte di laboratorio e, viceversa, portando in laboratorio le intuizioni dedotte durante la pratica clinica per migliorare la ricerca scientifica.
Malgrado non avessi alcuna preparazione pregressa nella ricerca scientifica di base, rimasi inaspettatamente colpito e conquistato dalle potenzialità che tutto questo aveva ai fini della possibilità di fare scoperte che avrebbero apportato benefici non soltanto ai miei pazienti, ma anche a un numero incalcolabile di altre persone che non avrei mai conosciuto e tanto meno curato direttamente come loro medico. Quella nuova passione per il lavoro rappresentò una sfida enorme per i miei piani ben delineati di pratica medica. Alla fine, scelsi di seguire entrambe le strade: diventare un ricercatore e anche un medico che curava pazienti presso l’Istituto nazionale di sanità dove lavoravo fin dall’inizio.
Si possono effettuare molte scoperte in laboratorio e in ospedale, anche quando meno ce lo si aspetta. All’inizio della mia carriera, fui in grado di mettere a punto alcune terapie molto efficaci per un gruppo di malattie fatali dei vasi sanguigni denominate vasculiti. Pazienti, che in caso contrario sarebbero deceduti, riuscirono invece a guarire sul lungo periodo grazie ai protocolli terapeutici che avevo sviluppato. Il mio futuro sembrava pertanto ben delineato: avrei trascorso la mia vita a lavorare su condizioni correlate a un’attività anomala del sistema immunitario.
Poi, nell’estate del 1981, i medici e i ricercatori si accorsero di una malattia misteriosa che si andava diffondendo perlopiù tra giovani uomini che avevano rapporti sessuali con altri uomini. Quella condizione così insolita, che sarebbe diventata poi nota con il nome di H.I.V./AIDS, mi affascinò per il suo decorso insolito. Suo segno distintivo era la distruzione completa o la compromissione delle cellule del sistema immunitario di cui il corpo necessita per difendersi. Inoltre, provai una forte empatia per quei gay, perlopiù giovani uomini che venivano già stigmatizzati e a quel punto lo diventarono doppiamente, perché la malattia ne consumava i corpi, derubandoli della vita e dei sogni.
Con grande sgomento di amici e mentori che ritenevano che avrei mandato in cortocircuito una carriera in ascesa, pur andando contro il loro parere decisi di modificare radicalmente la direzione della mia ricerca. Da quel momento in poi mi sarei dedicato alle ricerche sull’AIDS, prestando cure a quei giovani presso gli ospedali del Servizio sanitario nazionale e continuando a indagare e scoprire i misteri di quella nuova malattia nel mio laboratorio – ricerca che continuo a portare avanti da oltre quarant’anni.
Non ho mai aspirato a una posizione amministrativa di primo piano e ho avuto a cuore la mia identità di medico e di ricercatore clinico dall’approccio diretto. Tuttavia, all’inizio degli anni Ottanta rimasi particolarmente deluso dalla relativa mancanza di attenzione e di risorse destinate allo studio dell’H.I.V./Aids. Ancora una volta mi si presentò un’occasione imprevista quando mi fu chiesto di guidare il Servizio sanitario nazionale: accettai, a condizione di poter continuare a curare i miei pazienti, oltre che dirigere le ricerche di laboratorio. Quella decisione impresse una svolta alla mia carriera e mi aprì l’opportunità di influenzare positivamente la medicina e la sanità globale come non avrei mai immaginato.
Nel corso dei 38 anni che ho trascorso da direttore dell’Istituto nazionale di allergologia e di malattie infettive (NIAID), a partire dalla presidenza di Ronald Reagan sono stato consigliere di sette presidenti americani. I nostri colloqui vertevano su come reagire all’H.I.V./AIDS e ad altre minacce come la febbre aviaria, gli attacchi con l’antrace, la pandemia di influenza del 2009, le epidemie di Ebola, Zika e Covid-19. Ai presidenti e agli altri funzionari di governo di alto grado ho sempre parlato con schiettezza, in modo nudo e crudo, anche quando la verità poteva risultare scomoda o politicamente sconveniente, perché quando la scienza e la politica lavorano a braccetto possono accadere cose straordinarie.
Alla metà degli anni Novanta, fu dimostrata la sicurezza e l’efficacia di alcuni antivirali salvavita nei casi di H.I.V., studiati perlopiù nel corso di ricerche sostenute dal NIAID. Quegli antivirali divennero disponibili negli Stati Uniti nel 1996. Alla svolta del XXI secolo, le persone in grado di accedere a quei farmaci poterono aspettarsi una durata della vita pressoché normale. Per le persone che vivevano nell’Africa subsahariana e in altre regioni a basso e medio reddito, invece, l’accesso a quelle terapie in pratica fu inesistente.
Spinto da una compassione ben radicata nel suo animo e dal desiderio di uguaglianza sanitaria globale, il presidente George W. Bush mi impartì l’ordine, insieme ai membri del mio staff, di mettere a punto un programma che potesse far pervenire quei farmaci e altre cure a chi viveva nei Paesi con scarse risorse e alti livelli di incidenza dell’H.I.V. Poter essere l’artefice di quello che sarebbe diventato il Programma di sostegno all’Aids del Piano di emergenza del presidente, che salvò 20 milioni di vite in tutto il pianeta, è stato il massimo privilegio e l’onore della mia vita. Tale piano è un esempio di quello che è possibile realizzare quando i policymaker aspirano a eccelsi risultati con il sostegno della comunità scientifica.
Se il primo risultato della mia carriera al Servizio sanitario nazionale fu il contrasto dell’H.I.V./AIDS, quello più recente è relativo al Covid-19. Questa pandemia non era del tutto inattesa, poiché lungo tutta la storia sono emerse sempre malattie infettive che hanno messo in pericolo il genere umano, ma alcune di esse riescono anche a trasformare le civiltà. Il Covid-19 è la pandemia della malattia respiratoria più devastante che abbia mai colpito l’umanità dalla pandemia influenzale del 1918. E c’è ancora molto da imparare dall’esperienza ancora in corso con il Covid-19.
Gli Stati Uniti devono tenere a mente quanto sia importante investire di continuo nella ricerca clinica biomedica e di base. I più importanti successi della pandemia da Covid-19 sono stati assicurati dai progressi scientifici, in particolare dai vaccini salvavita che sono stati messi a punto, e la cui sicurezza ed efficacia è stata dimostrata nelle sperimentazioni cliniche, per essere poi messi a disposizione dell’opinione pubblica in un solo anno, impresa senza precedenti.
Altre lezioni che abbiamo tratto sono dolorose, come il fallimento di alcune reazioni di politica sanitaria a livello interno e globale. Peraltro, dobbiamo anche ammettere che la nostra battaglia contro il Covid-19 è stata ostacolata dalla profonda spaccatura politica insita nella nostra società. Le decisioni di alcune misure di sanità pubblica, come l’uso delle mascherine e le vaccinazioni con vaccini molto efficaci e sicuri, sono state influenzate, come non avevamo mai visto in precedenza, dalla disinformazione e dall’ideologia politica.
Garantire che le decisioni ufficiali di politica sanitaria siano trainate dai migliori dati disponibili è una responsabilità collettiva. Gli scienziati e gli operatori sanitari possono fare la loro parte, spiegando, parlando, includendo informazioni su nuovi e vecchi media, condividendo e illustrando con un linguaggio chiaro e accessibile le ultime scoperte scientifiche e quello che resta ancora da scoprire.
Se ripenso a quel giovane ventisettenne arrivato al campus dell’Istituto Nazionale di Sanità nel 1968, mi sento onorato dall’enorme privilegio di aver potuto servire il popolo americano e i cittadini di tutto il mondo.
Ho provato una gioia enorme e ho tratto grandi vantaggi dalla possibilità di formarmi e apprendere da centinaia di medici brillanti e appassionati, da scienziati e membri degli staff di supporto nel mio laboratorio, negli ospedali dell’Istituto Nazionale di Sanità, nelle divisioni di ricerca del NIAID, da collaboratori locali e internazionali di ricerca.
Guardando avanti, confido nel fatto che le prossime generazioni di giovani medici, scienziati e operatori del servizio sanitario pubblico possano sperimentare lo stesso entusiasmo e il medesimo senso di appagamento che ho provato io, quando dovranno soddisfare l’immensa necessità di mantenere, ripristinare e proteggere con la loro competenza la salute di tutto il genere umano nel mondo e dimostrarsi all’altezza delle sfide sempre impreviste che inevitabilmente dovranno affrontare durante il loro lavoro. —