di Paola D’Amico e Daniela Monti. C’è un’immagine che rimbalza sui social in queste prime settimane dall’avvio di Expo. È composta da due disegni. Nel primo c’è una piramide con in cima la sagoma di un uomo in splendido isolamento, padrone e misura di tutte le cose.
Sotto di lui, via via a scendere, le altre specie viventi (donna compresa e il dettaglio è interessante: esiste un fecondo filone di studi sulla correlazione fra femminismo e liberazione animale). Il secondo ha la forma di una sfera, o di un pianeta. Niente padroni, questa volta: l’uomo, la donna e tutte le specie coesistono in un equilibrio costruito su una rete dinamica di relazioni. Il primo disegno ha un titolo: Ego. Anche il secondo ha un titolo: Eco.
Se una seria discussione sul nostro modo di pensare (e sfruttare) le altre specie animali stenta a decollare, il motivo sta in quell’immagine: i due eserciti si guardano in cagnesco, da lontano. Da una parte l’industria della carne e chi siede a tavola con un pollo o un arrosto nel piatto (magari cercando un modo «sostenibile» per farlo, acquistando solo da allevamenti di «carne felice», cioè rispettosi del benessere di animali che comunque finiscono macellati); dall’altra chi vorrebbe buttare all’aria il tavolo e ricominciare su basi nuove, smantellando il presupposto che esista una vita dotata di valore (la nostra) e una vita senza valore (quella degli animali). L’impressione, visitando i padiglioni di Expo — dove gli animali non hanno diritto di cittadinanza e sono ammessi solo sotto forma di prodotti tipici dop e igp, vale a dire sotto forma di cibo per nutrire un pianeta che si immagina, in astratto, abitato solo da uomini — è che la seconda polarità, quella della sfera dell’Eco, sia stata dimenticata e che l’unico riferimento culturale, un po’ fuori tempo rispetto all’emergere e allo strutturarsi, anche teorico, di sensibilità nuove, sia il primo, la piramide dell’Ego.
Eppure sono già passati 40 anni dall’uscita del libro dell’australiano Peter Singer, «Liberazione animale», che ha segnato una svolta e posto le basi del moderno antispecismo (parola poco glamour , quasi respingente, che raccoglie chi vuole abbattere la separazione fra mondo umano e mondo animale, che genera la violenza del primo sul secondo). Poi, correndo veloci, sono stati i saggi dell’americano Tom Regan — «I diritti degli animali» e «Gabbie vuote» — a intercettare e rielaborare l’inizio di un cambiamento di prospettiva nella cultura occidentale. E quando nel 2006 il francese Jacques Derrida ha pubblicato «L’animale che dunque sono» (una stoccata a Cartesio, filosofo-simbolo della riduzione dell’animale a cosa) la strada per una riflessione più ampia e coraggiosa sembrava aperta.
Oggi, a singhiozzo, a fare più rumore è l’animalismo barricadero: gli animali prima di tutto! Ma i tempi sembrano maturi anche per altro. Leonardo Caffo, in un saggio contenuto nel volume «A come Animale» (Bompiani), curato con Felice Cimatti, scrive: «Siamo abitatori e non, come i secoli che ci precedono raccontano, i padroni di questo mondo. Potrà sembrare banale, ma in questa acquisizione, troppo spesso ignorata, risiede il principio per una cultura nuova e per una vita futura, tutta da inventare. Non più soggetti che incontrano oggetti, ma incroci, scontri e divenire comuni, assai più simili ad una sinfonia che al triste soliloquio, insopportabile, che è stato raccontato dall’antropocentrismo».
Chi abita il pianeta
Se escludiamo batteri, virus e altri organismi procarioti (unicellulari molto semplici e privi di nucleo), la scienza ha descritto quasi 2 milioni di specie animali e vegetali, ma si calcola che sulla Terra, negli habitat più integri e inaccessibili (fino a quando?) come le foreste tropicali o gli abissi marini, potrebbero nascondersene molte altre. Una stima basata su un modello statistico molto avanzato e pubblicata sulla rivista Plos Biology da Camillo Mora dell’University of Hawaii conta 8,7 milioni di specie viventi, di cui 6,5 terrestri e 2,2 marine. In questo «universo» i vertebrati, tra cui i mammiferi, sono una sparuta minoranza. E parliamo solo di specie, perché a voler stimare il numero di animali in termini di individui si ottiene una cifra a 19 zeri (20 miliardi di miliardi) di cui la metà, secondo lo Smithsonian Institute di Washington, sono insetti.
L’estinzione di una specie animale o vegetale è come una pagina strappata da un libro, «perché avrà sicuramente delle conseguenze, per quanto piccole, su tutto ciò che seguirà», dice Michele Nichelatti, biostatistico. Negli ultimi cinquant’anni la popolazione composta da 10 mila specie di fauna selvatica monitorate dagli scienziati si è dimezzata (-52%). Le cause di questa enorme riduzione sono dovute per il 46% a degradazione quali-quantitativa degli habitat, per il 37% al dissennato sfruttamento dell’uomo, per il 7% ai cambiamenti climatici, oltre ad altre cause. Ben diversa la situazione degli animali da allevamento. Secondo i dati Fao nel mondo vivono 24 miliardi fra polli, vacche, pecore, capre, maiali, anatre e tacchini, cui vanno ad aggiungersi cani (530 milioni) e gatti (650 milioni). Per un pianeta sostenibile, serve un pensiero nuovo sugli animali, che li consideri non in funzione delle nostre necessità (o almeno non solo), ma delle loro e dell’ambiente.
Per grazia ricevuta
Nonostante siano miliardi, di fatto, sono diventati una «presenza residuale»: gli animali sono ovunque, ma non li vediamo. Come sostiene lo scrittore Marco Mancassola «dipendono da una gentile concessione umana: da quanti fondi saranno stanziati per tenere i cacciatori illegali fuori dall’area protetta o da quanta gente cliccherà una petizione per salvare una specie quasi estinta. Nel XXI secolo non serve il cadavere di un ennesimo animale per riaffermare lo strapotere della cultura umana sulla natura». Siamo disposti a riconoscere un animale come soggetto solo quando diventa protagonista di una storia: «Che si tratti di un fatto di cronaca, del filo narrativo di un documentario o di un video virale, soltanto quando la nostra sensibilità narrativa viene interpellata l’Altro animale diventa qualcuno e torniamo capaci di riconoscere il suo dolore. La nostra Arca mentale ha una stiva piccola, accoglie pochi animali. Tutti gli altri restino esposti al diluvio e all’oblio». Accudiamo il cucciolo che teniamo dentro casa, ma il nostro amore finisce lì. Eppure: chi può dire di ignorare che un animale provi dolore? Come scrive John Sanbonmatsu: «Molte persone dicono di sapere da dove viene la carne che mangiano, in realtà non lo sanno e non lo vogliono sapere». È quello che lo psicologo dell’Università dell’Oregon Paul Slovic chiama «ottundimento psichico»: più la tragedia è grande, più la gente sembra non curarsene.
E se ce ne curassimo, invece? Cosa succederebbe se riconoscessimo che gli animali hanno dei diritti, primo fra tutti il diritto a vivere? «Il processo è cominciato: per produzione teorica e per numero di militanti il movimento per la liberazione degli animali è il solo che, in questo periodo di riflusso, cresce invece di prosciugarsi», risponde la filosofa Paola Cavalieri. Che denuncia Expo come occasione mancata («il discorso eretico è stato silenziato»), però si sottrae al dialogo: «Un dialogo che porta a soluzioni contrattualistiche è possibile solo fra pari — dice —: se una parte ha una forza soverchiante, finisce invece per tradursi in arretramento della parte più debole. Dialoghereste con cui difende le mutilazioni sessuali femminili? Qualunque cosa otteniate, che si facciano in ospedale invece che nelle capanne, il risultato sarà legittimare lo status quo» .
Disequilibri
C’è un luogo del pianeta dove abitano più gatti che uomini. È Aoshima, isola remota a sud del Giappone, dove i felini furono portati per occuparsi dei topi che infestavano le barche dei pescatori. Si sono moltiplicati, curati e coccolati com’erano, e si moltiplicheranno ancora. È un esempio di come l’uomo, per quanto animato dalle migliori intenzioni, possa diventare il principale responsabile dei disequilibri dell’ambiente. Come nell’isola remota del Giappone, ci sono metropoli dell’Occidente nelle quali abitano più cani che bambini. Mentre nelle zone tropicali e subtropicali ettari di mangrovie scompaiono, intere foreste pluviali grandi come l’Amazzonia.
Nelle nuove generazioni sta crescendo la sensibilità verso gli animali, insieme alla sensibilità ecologica per un pianeta davvero in equilibrio. Ma cresce anche il sistema da «catena di montaggio» dell’industria della carne. L’ingegnerizzazione delle fattorie ha già prodotto animali con più prole, che rendono di più e costano di meno. Come scrive il New York Times «non siamo d’accordo su dove tracciare la linea per proteggere i diritti degli animali, ma quasi tutti siamo d’accordo che c’è una linea da tracciare».
Corriere della Sera – 19 maggio 2015