La Stampa. La crescita dei contagi non vuol saperne di rallentare e ora anche i ricoveri sembrano aver imboccato una salita più ripida. Così con questo quadro epidemiologico difficilmente il 1° luglio nei luoghi di lavoro privati vedremo i lavoratori riporre in tasca l’amata-odiata mascherina. Anzi, quasi sicuramente non saranno nemmeno più liberi di scegliere se indossare le meno ostiche chirurgiche, perché l’obbligo dovrebbe restare e riguardare le più protettive Ffp2, che con il caldo diventano però più dure da indossare per un intero turno di lavoro.
Anche se a doverle tenere davanti a naso e bocca non saranno indistintamente tutti i lavoratori e gli esercenti di negozi, bar e ristoranti, ma soltanto coloro che nello svolgere la loro attività non riescano a mantenere la distanza di sicurezza. Oggi fissata a un metro, ma che con il ritorno di sempre più lavoratori all’attività in presenza potrebbe essere portata a due metri. Questo perché Omicron contagia non solo con il droplet, le goccioline che emettiamo da naso e bocca tossendo, starnutendo o magari solo parlando, ma anche attraverso l’aerosol, ossia le minuscole particelle che restano per molto tempo nell’aria con il semplice respirare. L’obbligo resterebbe anche per coloro che lavorano a diretto contatto con il pubblico, come baristi, camerieri, sportellisti senza protezione in vetro o plexiglas, ma anche i cuochi o chi comunque maneggi cibo e quant’altro entri poi a diretto contatto con clienti e utenti.
La decisione dovrebbe essere presa già oggi, quando i rappresentanti di imprese, sindacati e governo torneranno a riunirsi per decidere come aggiornare i protocolli di sicurezza nei luoghi di lavoro privati, in scadenza il prossimo 30 giugno. Mentre nel settore pubblico fa sempre fede la circolare Brunetta di due mesi fa, che per i travet ha già trasformato l’obbligo in raccomandazione. Anche se da quel che risulta in molti ministeri, enti locali e aziende pubbliche i capi ufficio hanno continuato a chiedere agli impiegati di indossare gli strumenti di protezione. Un modo anche per proteggersi da sgradite ed esose richieste di risarcimento, visto che l’Inail già da tempo ha equiparato il contagio da Covid a infortunio sul lavoro. E lo stesso spauracchio induce alla prudenza i datori di lavoro privati, mentre i sindacati all’ultimo incontro della scorsa settimana sono apparsi divisi, con la Cgil favorevole alla linea dell’auto-responsabilizzazione e le altre sigle per mantenere invece un atteggiamento di maggior prudenza. Certo, anche senza obbligo i datori di lavoro potrebbe chiedere ai propri dipendenti di indossarla, ma senza il «cappello» del protocollo sottoscritto con il governo poco potrebbero davanti a un rifiuto. Anche perché la multa da 400 a mille euro è andata in pensione dal 1° maggio, allo scadere del precedente decreto sulle misure anti-Covid.
Che si vada verso una conferma delle Ffp2 nei luoghi di lavoro del settore privato lo confermano poi i numeri di ieri, con 48.456 contagi contro i 56.386 di sabato, ma rilevati con molti meno tamponi, tanto che il tasso di positività si è impennato di un nuovo 3,4% portandosi così al 25,3%, che è come dire un positivo ogni 4 test eseguiti. E che la curva dei contagi continui a salire lo conferma il confronto con i numeri di una settimana fa, quando di casi se ne erano contati ben 18mila in meno.
A decidere che estate passeremo è però soprattutto la curva dei ricoveri. Che sale in particolare nei reparti di medicina, dove in 10 giorni hanno finito per essere occupati da pazienti Covid 1.229 letti in più. Un aumento del 28,5% che al momento non desta preoccupazione, visto che ieri il tasso di occupazione dei letti era all’8,6%, ben distante dalla prima soglia d’allarme che è del 15%. Già superata però da tre Regioni: Calabria (con il 16,5%), Sicilia (19,5) e Umbria (19,3). E se anche le altre regioni dovessero arrivare a questi tassi di occupazione il ministero della Salute sarebbe pronto a sfidare l’impopolarità, proponendo il ritorno generalizzato alle mascherine al chiuso. Un dietrofront reclamato ieri a livello nazionale, «per salvare il turismo», anche dall’assessore alla Sanità del Lazio Alessio D’Amato. —