Ambiente, ambientalismo e animalismo. Un confronto a distanza, dal sito di Federfauna
Egregio Professor Gherardo Ortalli,
il giorno 20 agosto 2011 è comparso su alcuni quotidiani locali del Veneto un Suo intervento dal titolo “Nessuno può dire l’ambiente lo gestisco io” a corollario di un più ampio servizio sul tema della “Cultura rurale” pieno zeppo delle solite imprecisioni e di luoghi comuni che fioccano solitamente quando si discute attorno ad argomenti generalmente poco conosciuti.
E’ doveroso da parte mia, in qualità di delegato del Veneto dell’associazione ambientalista Wilderness Italia che si prefigge tra i suoi obiettivi anche quello della corretta divulgazione del relativo concetto filosofico di conservazione, fare chiarezza su quanto da Lei riportato in maniera, a mio avviso, piuttosto approssimativa. Del Suo articolo, condivido solamente il titolo: “Nessuno può dire l’ambiente lo gestisco io”. Bene…quali sono le associazioni ambientaliste che hanno monopolizzato negli ultimi 40 anni lo scenario ecologista italiano? Non sono forse sempre le stesse?
Io sono dell’opinione che un vero ambientalismo, fatto anche di dibattiti costruttivi come quello americano per esempio, serio e ragionevole, qui da noi non sia mai esistito e negli ultimi anni esso abbia addirittura virato clamorosamente verso un animalismo che risponde esclusivamente a “necessità” della sfera emozionale dell’uomo, ponendosi spesse volte in antitesi rispetto ai veri bisogni dell’ambiente. In Italia c’è ancora una tremenda confusione tra ciò che significa essere ambientalisti o animalisti, per quali battaglie vale la pena spendere le proprie energie o quali parametri usare per sentirsi definire dei veri “amanti degli animali”. Spesse volte, dimostrare un affetto spasmodico nei confronti del proprio cane e gatto da salotto, pur non sapendo magari riconoscere una gallina da un tacchino, è sinonimo di positiva sensibilità nei confronti delle tematiche che riguardano il rapporto uomo-natura-animali…insomma, ci si sente dei veri amanti degli animali, rispettosi dell’ambiente. Il progressivo distacco dalla natura invece ha condotto l’uomo occidentale ad uno stile di vita completamente estraneo e sempre più lontano dalla necessaria semplicità cui dovremmo nutrirci quotidianamente e che possiamo ritrovare solo ed esclusivamente attraverso un rapporto sereno ed attivo all’interno di essa. Nessuno può dire: “l’ambiente lo gestisco io” come hanno fatte le associazioni ambientaliste finora, tantomeno chi quell’ambiente non lo vive, non ne sa riconoscere l’importanza anche spirituale per l’uomo e “droga” la propria mente con immagini televisive “neo-ruraliste” teorizzando sulla natura e quasi mai praticandola o vivendola. I “neo-ruralisti” di città infatti sono una tremenda piaga per il nostro territorio; non hanno mai vissuto la campagna ma vorrebbero dettarne le regole in quanto in qualche maniera, non si sa come, non si sa il perché, si sentono legittimati a farlo (Lei saprebbe professore spiegarmi il perchè di questo curioso fenomeno?). Ecco allora che per gli “ambientalisti nostrani”, avulsi dai problemi legati al territorio rurale, le volpi in esubero per esempio non si dovrebbero mai toccare, nemmeno quando l’eccessiva presenza mette a serio pericolo la tradizione degli allevamenti famigliari, ottimi esempi invece del vivere sano, naturale ed “ecosostenibile”; le nutrie sono carine e vanno lasciate li dove sono perché non è vero che creano danni al territorio ed alla biodiversità, la pesca e la caccia vanno abolite perché pratiche barbare che non servono più, fino ad arrivare, nei casi più estremi, a pubblicizzare le allegre e felici fattorie non-violente (ultima trovata di questa Italia “animal-friendly”) in cui mucche e galline muoiono di vecchiaia, ovviamente condannando le fattorie tradizionali.
Quando si discute attorno alla questione animale od al rapporto tra uomo e natura, sembra sia svanita la ragionevolezza. L’arroganza e la supponenza di questo uomo moderno lo porta ad ergersi spesso quale miglior difensore di una natura che però non conosce e che gli è ormai completamente estranea. In un passo del Suo articolo, pur condividendo che la pratica della caccia è parte della tradizione dell’uomo, sottolinea che tutto ciò non significa nulla, ovverosia non la legittima, perché ci sono tradizioni buone e tradizioni cattive. Lei forse può dirci quali sono quelle buone e quelle cattive? Il Palio di Siena lo teniamo o lo abroghiamo? La caccia è più o meno violenta della pesca? Quale delle due è degna di quest’uomo “super-civilizzato”? Le sagre paesane che da centinaia di anni ruotano attorno a quel sano (per alcuni malato) rapporto che esisteva un tempo tra l’uomo e gli animali, sono buone o cattive? Insomma, chi deve decidere cos’è giusto e cos’è sbagliato? Forse l’uomo occidentale di città che si ritrova la fettina cotta sul piatto e non sa neppure a quale animale appartenga quella carne, magari buttandone mezza sulla spazzatura?
Io non ci sto!
Abroghiamo l’arroganza e l’ipocrisia piuttosto e vestiamoci d’umiltà, ecco cosa dobbiamo fare affinchè il nulla esistenziale cui siamo prede non continui ad “ammazzare” di solitudine i nostri figli. La Wilderness, nei suoi concetti più profondi, insegna tutto questo e lo può fare a pieni titoli perché chi ne fa parte non fa ambientalismo da salotto ma vive il territorio quotidianamente proprio come gli agricoltori, i pescatori, i cacciatori, gli allevatori, la gente che abita e vive quei luoghi; persone che hanno magari scelto uno stile di vita più semplice, accontentandosi di ciò che la terra gli offre e che sanno riconoscere l’importanza di mantenere un contatto diretto con essa. La Wilderness non è un concetto ingenuo ed anacronistico come scrive Lei. Lo è forse per chi non sa neppure che certe cose esistono ancora. Salvare anche un solo lembo di terra per lasciarlo selvaggio, o sapientemente coltivato, contemplando al suo interno un uomo perfettamente inserito nei cicli della natura, dovrebbe essere il faro che guida questa società verso le vere, serie e costruttive tematiche ambientali. Si progettano parchi in funzione dello sfruttamento turistico, gestite proprio da quelle associazioni che c’hanno fatto credere per molti anni che solo loro erano capaci di gestire e salvare l’ambiente, si finanziano grosse ricerche, si sentono pareri di luminari uomini di scienza ma alle comunità locali viene sempre riservata una parte marginale, se non nulla. Io penso invece che esse costituiscano uno scrigno insostituibile di sapienza. Proprio come il filosofo Henry David Thoreau, ispiratore della Wilderness, penso anch’io che il parere di un contadino per la cura sapiente della terra, o di un pescatore per la pulizia di un fiume, o di un cacciatore per il mantenimento delle zone selvagge e della fauna, valga più di mille parole dette da qualsiasi luminare che studia sulla carta topografica, avanzando pretese di gestione su un territorio che non ha mai visto.
Questo è il concetto della Wilderness ed esso può applicarsi per qualsiasi lembo di terra non ancora inquinato dall’implacabile sete di potere e soldi dell’”uomo bianco che viene dalla città”. In Italia ci sono 64 aree Wilderness; la più grande è proprio qui in Veneto, la Val Montina. E’ una zona impervia e selvaggia, teatro delle avventure descritte anche sui famosi libri di Mauro Corona. Lo scrittore, con la valle, i suoi uomini, i suoi cacciatori, le sue tradizioni è un tutt’uno (questo è il “pensare come una montagna” che sta all’origine della filosofia Wilderness). Per chi vive quei posti non esistono visioni dualistiche uomo-natura e non è affatto anacronistico pensare che ancor oggi sia possibile, che tutto ciò debba conservarsi così com’è, uomo e sue antiche attività comprese. Mi ritengo tra i fortunati ad avere questo tipo di visione; anch’io vivo molto con i prodotti che mi offre la terra e più per il piacere in sé, visto che potrei tranquillamente rivolgermi al supermercato, ritengo fondamentale questo tipo di rapporto perché a mio avviso costituisce ancora un’ottima scuola di sani principi e valori da trasmettere, capaci di influire positivamente anche sulla visione dell’esistere e del divenire. Questo è il nostro stile di vita, innegabilmente diverso rispetto a quello di chi da sempre abita le città e trovo alquanto strano, oserei dire paradossale, che qualcuno si “permetta” di insegnarci cos’è moralmente giusto e cosa invece non lo è, specialmente se quel qualcuno vive tra l’asfalto ed il cemento di una grande grigia città.
Aldo Leopold, padre dell’ambientalismo scientifico e considerato tuttora il più grande ambientalista mondiale, ha speso la sua vita per divulgare questi concetti, tra le sue montagne, in una fattoria, praticando anche la caccia; se al mondo ci sono milioni di ettari di territorio Wilderness, strappati da una cementificazione assurda da una parte e dalla “parcomania” del turismo di massa dall’altra, il merito è del cacciatore Leopold!
23 agosto 2011