Questa è la storia di un chilo di grano e del prezzo della pagnotta che cominciò a lievitare. Storia simbolica per dire quanto sia forte la differenza tra il prezzo pagato all’agricoltore e quello che troviamo sugli scaffali dei supermercati. Una vicenda che nelle sue proporzioni ha dell’incredibile e che spiega, almeno in parte, le proteste degli agricoltori di questi giorni.
I dati dei prezzi corrisposti ai produttori sono pubblicati dall’Ismeaa, l’istituto pubblico che osserva il mercato agro-alimentare. Ogni contadino che semina grano riceve, al momento del raccolto 22 centesimi al chilo. Con un chilo di farina si fanno 800 grammi di pane. Un chilo di pane costa oltre 3 euro. Dentro quei tre euro ci sono, anche, i 22 centesimi corrisposti all’agricoltore che ha coltivato e raccolto il grano.
Un problema di intermediari? «Non solo – spiega il professor Lorenzo Bazzana, responsabile economico della Coldiretti – perché le variabili in gioco sono molte e imprevedibili». La storia del grano è emblematica. Ultimamente il prezzo corrisposto ai contadini italiani si è molto abbassato. Conseguenza indiretta dell’aggressione russa all’Ucraina. Scusi professore ma con la penuria di grano ucraino quello italiano non dovrebbe essere pagato di più? «Non è così. Per evitare di strozzare l’agricoltura di Kiev, l’Europa ha favorito l’ingresso nel Vecchio Continente della produzione ucraina. Questo ha sbilanciato gli equilibri». Questione che nell’Europa dell’est, a diretto contatto con il Paese aggredito, ha finito per scatenare guerre commerciali e tensioni al confine polacco. Ma anche in Italia sta facendo sentire i suoi effetti spingendo verso il basso il prezzo corrisposto ai produttori. «Proprio ieri – fa notare Bazzana – la Commissione europea si è riunita per discutere come aiutare l’Ucraina senza danneggiare gli altri Paesi dell’Unione».
La guerra non è l’unica variabile a incidere sull’andamento dei prezzi. Ma i ribassi alla produzione non coincidono con altrettanti risparmi per il consumatore. In mezzo c’è, a parziale giustificazione, il significativo aumento dei costi dell’energia che penalizza ovviamente i prodotti che hanno maggiore bisogno di essere trasformati per arrivare sulle nostre tavole: «Diverso – dice Bazzana – è portare in tavola le arance e i carciofi, un altro conto è far arrivare il latte, la carne, il pane. Questi ultimi hanno bisogno di processi di lavorazione più complessi».
Per abbattere i prezzi di vendita, talvolta anche a svantaggio dei produttori, i grandi gruppi della distribuzione tendono ormai a saltare gli intermediari. I grossisti vengono spesso sostituiti dalla trattativa diretta tra le cooperative degli agricoltori e i big dello scaffale. Ancora più stretto è il rapporto tra le stalle e i giganti del latte. Chi ha munto le vacche portando il prodotto alla cooperativa non ha molto tempo per trattare il prezzo del latte che deperisce. Così le multinazionali lattiero casearie dettano legge. È di questi giorni lo scontro tra Lactalis e i produttori. Il colosso francese è accusato di aver abbassato arbitrariamente e in corso d’opera i prezzi pagati agli allevatori: «Una pratica che giudichiamo scorretta – dicono in Coldiretti – e che va contro una legge italiana, emanata applicando una direttiva Ue, che impone alla grande distribuzione e ai grossisti di non corrispondere ai produttori prezzi che siano al di sotto dei costi di produzione». Questa potrebbe essere la chiave per risolvere almeno in parte i problemi degli agricoltori: «Imporre un prezzo minimo ai loro prodotti che consenta almeno di remunerare i costi sostenuti da chi vive nei campi». Ma non è facile perché per loro natura certi prodotti mettono i grandi distributori in una posizione di oggettivo vantaggio: «Chi deve vendere le vacche sa che è costretto a farlo. Per ogni capo invenduto aumentano i costi: le vacche continuano a mangiare, devono essere curate tutti i giorni». Questo spiega perché la carne viene pagata 3,35 euro al chilo nelle stalle e 17,5 euro sul banco di marmo della macelleria.
Il nodo per i consumatori è quanta parte dei maggiori costi la legge sul tetto minimo dei prezzi all’origine il sistema dei grandi supermercati scaricherà sui clienti facendo salire l’inflazione. Ma sarebbe sbagliato addossare solo alle nuove regole che faranno salire i prezzi alla produzione le colpe di una nuova fiammata sugli scaffali. «Ogni giorno si presentano nuove occasioni per aumentare l’incertezza», dice Bazzana. E fa l’esempio dei problemi legati al blocco della rotta del Mar Rosso: «Aumentare di dieci giorni la durata del viaggio verso l’Asia significa di fatto chiudere la possibilità di esportare a chi produce ortaggi e frutta deperibili». Una questione fino allo scorso anno sostanzialmente inesistente, se si tiene in considerazione la sicurezza delle rotte commerciali.
L’ultima variabile che fa salire i costi di produzione danneggiando l’economia degli agricoltori è il cambiamento climatico. Con la siccità, irrigare costa di più, ortaggi e verdure sono più piccoli e hanno dimensioni che li rendono meno remunerativi: «Le arance vengono pagate in base alle dimensioni. Un campo di arance di dimensioni ridotte è una perdita economica significativa».
Se questi sono i problemi va detto che l’Europa, lungi dall’esserne la causa è stata spesso negli anni una delle istituzioni che hanno maggiormente aiutato l’agricoltura. Nella revisione del Pnrr annunciata dal governo Meloni a dicembre sono previsti 6,5 miliardi di finanziamenti agli agricoltori italiani. Non una bazzecola.