Nell’anno del Covid non tutto il comparto alimentare in Italia ha tenuto. Il settore della carne bovina, per esempio, si è ritrovato al centro di una tempesta perfetta. Da un lato c’è la chiusura dei ristoranti, che da sempre acquistano i tagli più pregiati: «Il 75% del mio guadagno su una mucca lo ricavo dal quarto posteriore – racconta Negri – ma filetti, roastbeef, fiorentine e magatelli si mangiano soprattutto al ristorante». Dall’altro lato, c’è l’arrivo massiccio nei supermercati di carne nordeuropea, soprattutto tedesca, irlandese e polacca, assai competitiva sul prezzo: «Si tratta di tagli originariamente destinati ai mercati nordafricani e a quello turco – spiega Giorgio Apostoli, responsabile Zootecnica della Coldiretti – ora però questi mercati sono chiusi, così questa carne si ferma da noi e ci fa una concorrenza fuori misura, perché costa il 20-25% in meno di quella prodotta in Italia».
A fare le spese di questa tempesta perfetta è soprattutto la razza piemontese, che tra quelle autoctone è la più allevata in Italia. «Qui rischiamo di non portare a casa nemmeno i costi», racconta Andrea Rabino, che nell’Astigiano ha una stalla con 200 capi di piemontese. «Fino a un anno fa vendevo le vacche a 4,20 euro al chilo a peso vivo, oggi le vendo a 3,50 euro. Su 700 chili di animale, fanno quasi 500 euro di incasso in meno». Mettiamoci anche l’aumento dei prezzi dei mangimi, e in particolare della soia: «Non è difficile immaginare che parecchi allevatori oggi lavorano sotto i costi di produzione», sostiene Apostoli. Tra crollo dei prezzi e chiusura dei ristoranti, la Coldiretti stima che sino ad oggi l’emergenza Covid è costata alle stalle italiane ben 1,7 miliardi di euro.
«Come settore, paghiamo al Covid un prezzo più alto di quello del vino», sostiene Luigi Scordamaglia, presidente di Assocarni e consigliere delegato della fondazione Filiera Italia. «Se parliamo di bovini – prosegue – in Italia registriamo un crollo della produzione del 15% e una perdita netta di 130-140 euro per ogni vitello allevato». E non è solo il calo di guadagno, a preoccupare, ma anche la mancata copertura dei costi: «Allevare in Italia costa di più – dice Scordamaglia – per i mangimi made in Italy e per i protocolli di benessere animale. Un chilo di carne prodotta in Italia genera solo un quinto della CO2 emessa per lo stesso chilo di carne allevata in America. Solo che ora ho un mercato che non paga più questi costi».
Imprese e allevatori chiedono un intervento strutturato del governo. Il vecchio decreto Ristori prevedeva un premio – qualche decina di euro – per ogni animale portato al macello, ma solo per i mesi di maggio e giugno. «La crisi dura da più di dieci mesi, non due mesi soltanto – dice Scordamaglia – serve riattivare questo canale, e serve anche far arrivare i soldi già attribuiti: i sistemi di pagamento sono in alto mare, l’Agea non riesce a star dietro ai flussi. In Italia gli allevatori sono 120mila e qualcuno ha già chiuso. Ma se una stalla chiude, non riapre mai più».
Micaela Cappellini