A quel punto, non sarà più una questione di prezzo, sarà proprio una mancanza di materia prima. Alternativa non c’è, bisognerà abbattere gli animali». A fine luglio sono arrivati i primi segnali di rallentamento dei prezzi delle materie prime agricole sui mercati internazionali, ma gli esperti dell’Ismea dicono che è troppo presto per cantare vittoria, che molto dipenderà dall’entità dei raccolti a settembre e che, in ogni caso, è impossibile che le quotazioni di grano e mais scendano ai livelli del 2021, perché rispetto ad allora oggi sono il 50% in più. Il caro-mangimi, unito al caro-energia, ha già messo in crisi parecchie stalle da latte. Con i prezzi al litro risicati fino a pochi giorni fa – cioè prima dei rinnovi dei contratti di fornitura di Lactalis e Granarolo, che fanno da riferimento a tutti gli altri – qualche allevatore della filiera ha alzato bandiera bianca.
Per fortuna, a chi alleva gli animali per produrre carne, invece che per vendere latte, le cose vanno un po’ meglio. Se non altro, perchè i macelli e le industrie della trasformazione hanno riconosciuto subito agli allevatori buona parte dell’aumento del prezzo derivante dall’aumento dei costi dei mangimi: «Se penso all’anno scorso, i prezzi di vendita dei bovini vivi sono aumentati del 20%» dice Apostoli. I suini, poi, hanno toccato quotazioni record: «La prima settimana d’agosto i maiali hanno raggiunto 1,91 euro al chilo, erano anni che non si vedeva un prezzo così», racconta il direttore generale di Assica, Davide Calderone. Le imprese che la sua associazione rappresenta acquistano suini per farne insaccati: «Il prezzo che si paga per la carne di maiale è sicuramente giustificato dall’aumento dei costi di produzione subiti dagli allevatori. Ma 1,91 euro al chilo è una scommessa per i macelli e per le salumerie: le nostre aziende lamentano costi dell’energia quadruplicati rispetto a un anno fa, se ci aggiungiamo questi rincari della materia prima animale i margini diventano davvero bassi». Ma è il calo dei consumi, soprattutto, a fare paura. Non tanto adesso, in piena estate, quando gli italiani in vacanza sembra non stiano badando al portafoglio. Ma che sarà a settembre, quando l’inflazione nel carrello sarà più pesante e si dovranno pure acquistare i libri per la scuola? «I salumi sono un bene voluttuario – ammette Calderone – di quelli che se mancano i soldi se ne compra una volta di meno. È chiaro che la preoccupazione c’è. Tutto dipenderà dalle scelte della grande distribuzione, è lei ad avere i margini più elevati. Con le cosce di maiale per fare il Prosciutto di Parma a 5,70 euro al chilo, al produttore oggi non resta in tasca quasi niente». Il nostro Paese conta 24mila stalle.
Ogni anno da qui escono 550mila vitelli sotto gli otto mesi, 550mila vacche e 1,6 milioni di vitelloni tra gli otto e i 24 mesi, più o meno la metà della carne bovina consumata dagli italiani. L’altra metà arriva dall’estero. «La media è 16 chilogrammi di consumo procapite all’anno – dice Apostoli, della Coldiretti – è tra le più basse d’Europa». Nei primi cinque mesi del 2022, dice l’Ismea, i consumi di carne degli italiani sono anche calati del 5,5%: «È chiaro che siamo preoccupati, se a settembre gli acquisti caleranno ancora», aggiunge. I costi degli allevatori, in compenso, sono aumentati parecchio. Secondo la Coldiretti, il rincaro dell’energia e dei mangimi per l’alimentazione degli animali ha fatto esplodere del 60% i costi delle oltre 5mila stalle dove si allevano i maiali per le produzioni di prosciutti di Parma e San Daniele e dei salumi Dop. «Nella filiera dei bovini i prezzi di produzione sono esplosi – racconta Luigi Scordamaglia, presidente di Assocarni – dalla razione alimentare degli animali, cresciuta del 25%, ai costi energetici, balzati del 70% soltanto negli ultimi mesi. Dalla crisi Covid ad oggi, il gas è aumentato di 10 volte, tanto che molte industrie della carne hanno investito nei cogeneratori». Alle imprese oggi un bovino adulto costa il 30% in più, un vitellone il 25%: «All’ingrosso – dice Scordamaglia – il prezzo degli animali è aumentato dal 15 al 25% a seconda delle tipologie e i margini dei produttori si sono erosi. La grande distribuzione ha aumentato progressivamente i prezzi di vendita, ma comunque in parte li ha contenuti, per paura di un crollo dei consumi. Io credo che ora quei prezzi nel carrello vadano aumentati ancora: la vera sfida sarà riuscire a tenerli a un livello giusto, in maniera da assicurare un minimo di marginalità ai produttori».