Le recessioni impattano sulle pensioni future. Ma un Pil allo zero virgola fa anche peggio. Un Paese in perenne stagnazione condanna i suoi giovani due volte: mentre lavorano e dopo, quando si ritireranno. Un trentenne di oggi rischia di ricevere un assegno previdenziale più basso del 20-30% solo perché l’economia non cresce. Se a questo si aggiunge una carriera intermittente, fatta di buchi e contrattini, il futuro è compromesso.
Il problema è però di tutti. Anche di quarantenni e cinquantenni che sono per intero nel sistema contributivo (prenderanno in base a quanto versato e non sugli ultimi stipendi) perché hanno iniziato a lavorare dal 1996, quando la riforma Dini ha agganciato le pensioni alla media quinquennale del Pil, la media cioè di 5 anni di Pil. Ogni anno si “mettono da parte” i contributi – versati all’Inps o ad altre gestioni previdenziali – e questi contributi sono rivalutati in base all’inflazione e al Pil applicando a quel montante un coefficiente. Se il Paese va male, le pensioni scendono. Se corre, gli assegni volano. Non è l’unico criterio. Conta anche la carriera, meglio se continua e con tanti scatti di stipendio. E l’età del pensionamento: più tardi si esce e più soldi si incassano.
Ma l’aggancio al Pil nell’anno del Covid-19 che abbina recessione e deflazione – Pil e prezzi giù allo stesso tempo – accende una luce rossa. Ecco perché se ne riparla. Ecco perché i sindacati, qualche giorno fa al tavolo sulle pensioni, hanno chiesto alla ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, di far calcolare ai suoi tecnici l’impatto del terribile 2020 sugli assegni futuri. Per sterilizzarlo, eventualmente. Come accaduto nel 2015 quando con il decreto 65 il governo Renzi decise che mai le pensioni si sarebbero svalutate. Se la media quinquennale del Pil ha il segno meno, pesa come fosse zero. Ma poi si recupera quello “scivolone” un pochino per volta negli anni successivi, se più favorevoli. La perdita si spalma, dunque. La nuova regola, introdotta cinque anni fa, non si è poi mai concretizzata. All’epoca il Parlamento decise che “in sede di prima applicazione” non solo il segno meno di fatto si cancellava (nessun taglio alle pensioni), ma che non ci sarebbe stato alcun recupero negli anni a seguire. E stavolta? Cosa succederà?
«È molto difficile stimare l’impatto di un singolo anno negativo sulla pensione futura», ragiona Andrea Carbone, partner di Progetica ed esperto di previdenza. «Non sempre è visibile, perché viene stemperato dalla media quinquennale del Pil usata per le rivalutazioni, a sua volta influenzata sia dal rimbalzo fisiologico negli anni successivi al tonfo che dalla clausola di salvaguardia del 2015». Mai il segno meno del Pil si è trasferito sulle pensioni degli italiani, dal 1996 ad oggi. L’unica volta che si è verificato – media quinquennale pari a -0,2% nel 2014 – il legislatore lo ha impedito.
Attenzione però: impossibile non immaginare riflessi delle recessioni sull’entità degli assegni. Se consideriamo le medie quinquennali del Pil al netto dell’inflazione, otto degli ultimi dieci anni hanno il segno meno: frutto della doppia grande recessione, con il Pil del 2008-2009 giù del 6,6% e quello 2012-2013 del 4,5%. L’Ocse stima per quest’anno un tracollo del Pil italiano del 10,5% e un rimbalzo nel 2021 del 5,4%. Tradotto in media quinquennale del Pil: cinque anni col segno meno (dal 2021 al 2025), pur immaginando una crescita anche dopo il 2021. Come si tradurrà sulle pensioni?
«Le pensioni non riusciranno per molto tempo a recuperare nemmeno l’inflazione, quando i prezzi torneranno a salire», nota Carbone. Assegni bassi è dunque un futuro inevitabile? «Non se il Paese torna a crescere, crea lavoro stabile e ben retribuito». Nell’ultimo decennio il Pil italiano è avanzato dello 0,2% in media. Il governo ora prevede di salire all’1,6% grazie ai soldi del Recovery Fund. La differenza tra i due numeri non è irrilevante. Un futuro, di qui alla pensione, fatto di Pil allo zero virgola (mini recessioni e deboli risalite), significa per un trentenne perdere un quinto della sua pensione futura (386 euro al mese, stima Progetica) rispetto a un andamento col Pil a +1,5%. Il sessantenne rinuncia al 2% (44 euro), solo perché è più vicino all’uscita e gli anni di stagnazione che possono impattare sulla sua pensione sono minori. Il quarantenne e cinquantenne lasciano tra il 12 e il 17% dell’assegno. Il nemico è dunque un futuro da zero virgola.
Complice l’inflazione a due cifre, eravamo al 20% negli anni Settanta- Ottanta di Pil nominale, cioè Pil e prezzi insieme. Ora oscilliamo tra lo 0 e l’1. E qualche volta andiamo sotto, con l’inflazione a salvarci sempre meno perché l’economia “non si scalda”. Tutto è fermo, il lavoro stenta, la produttività arranca. Le pensioni soffrono.
La Repubblica