La Stampa. Giorgia Meloni lo ha detto a chiare lettere a Giancarlo Giorgetti: «Sulla sanità ci giochiamo parte del consenso, qualche risorsa in più bisogna trovarla». Così dai «zero euri» di mouriniana memoria si è passati a 2,5 miliardi, la metà di quanto richiesto inizialmente dal ministro della salute, Orazio Schillaci. Che erano già poca cosa rispetto ai 15 erosi dall’inflazione dal 2021 al 2024. Soldi che si aggiungono ai 2,3 miliardi in più già programmati ma, dei quali 2,7milardi dovranno essere messi sul piatto del rinnovo del contratto dei medici biennio 2021-22 che dovrà recuperare l’8per cento di inflazione.
Comunque l’obiettivo è rosicchiare più possibile quel 20 per cento di accertamenti che i tecnici della Salute classificano inutili, tagliare i finanziamenti alle regioni che consentono ancora di far funzionare reparti dove il tasso di utilizzo è al 30 per cento quando altrove si sfora il cento, mettere ordine anche alle sale operatorie, «dove in media si fa solo un intervento al giorno», rivela sempre Lucaselli. In più centralizzare maggiormente gli acquisti di farmaci e dispositivi medici per ridurne il costo. Ma Pierino Di Silverio, segretario nazionale del primo sindacato dei medici ospedalieri, l’Anaao-Assomed, avverte: «Senza un reale recupero dell’inflazione e una decontribuzione della parte fissa del salario inviteremo i colleghi alle dimissioni di massa». L’autunno caldo della sanità è già iniziato.
Niente fondi per l’aumento di spesa alle strutture private convenzionate
Le liste di attesa sono la vera piaga della nostra sanità: quattro milioni di italiani che non hanno i soldi sono costretti a rivolgersi al privato o rinunciare alle cure. Il ministro della Salute Orazio Schillaci era riuscito a far aumentare da 50 a 80 euro la remunerazione oraria per le prestazioni aggiuntive taglia-liste, ma ora difficilmente porterà a casa l’innalzamento del tetto di spesa per il privato convenzionato, una soluzione permetterebbe di aumentare l’offerta e ridurre i tempi di attesa ma che costano 130 milioni per ogni decimale in più. I soldi ci sono o per i medici o per le cliniche, per cui agli assistiti che restano intrappolati nelle liste di attesa resta la legge che consentirebbe loro di rivolgersi direttamente al privato, con automatico rimborso pubblico quando si superano i tempi massimi di attesa. Una possibilità teorica, perché con 15 miliardi di Fondo sanitario eroso dall’inflazione e solo in minima parte rifinanziato, le Asl continueranno ad essere in debito di ossigeno e fare quel che fino ad ora hanno sempre fatto: disapplicare la legge.
Addio a cinquemila medici e infermieri attirati da paghe migliori all’estero
Fatti salvi quelli che imitando l’ex Ct azzurro Mancini fuggono in Arabia, i medici e gli infermieri pubblici che decidono di cambiare casacca o di appendere anticipatamente il camice al chiodo aumentano sempre più. Solo nel biennio 2021-22 a dimettersi in anticipo è stato il 120% in più: da duemila a quasi cinquemila. Secondo l’Ocse dal 2019 al 2021 sono espatriati 17.800 infermieri. Una fuga che il governo proverà a fermare con la decontribuzione di una quota del salario dei professionisti sanitari. Circa un miliardo dei 2,5 che il Ministero del Tesoro sembra disposto a mettere sul piatto per la sanità servirà a questo. Resta da capire se si punterà a scontare fiscalmente le attività aggiuntive per il recupero delle liste d’attesa, oppure quote fisse del salario, come l’indennità di specificità medica che da sola costa 320 milioni. I nostri camici bianchi chiedono soprattutto di recuperare l’8% di salario eroso dall’inflazione con il contratto 2022-24 e che costa 2,7 miliardi di euro. Una chimera, tenuto conto che mancano ancora le risorse per siglare quello del triennio precedente.
Scoperti i turni delle case di comunità. Nella metà dei casi dieci ore a settimana
Su Case e Ospedali di comunità si punta tutto per rinforzare la sanità territoriale. Con le prime, maxi ambulatori aperti 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, si decongestionerebbero i pronto soccorso. Ai secondi, a conduzione infermieristica, viene demandato il compito di assistere quei pazienti che non hanno più bisogno di restare in corsia ma non possono essere rimandati a casa. I soldi non ci sono per far funzionare le prime e nemmeno i secondi, visto che non si capisce chi pagherà i professionisti che ci dovranno lavorare. Il ministro Schillaci voleva portare a 38 ore settimanali l’orario degli specialisti ambulatoriali che dovrebbero traslocare nelle case di comunità e che oggi nel 42 per cento dei casi ne lavorano appena 10. Al momento per pagare le ore in più non c’è un euro, così come non ce ne sono per sostenere i maggiori costi del passaggio alla dipendenza dei giovani medici di famiglia, che sempre secondo il ministro della Salute si sarebbero dovuti impegnare maggiormente nelle nuove strutture. Stessa penuria di fondi per assumere gli infermieri.
In nove casi su dieci macchinari obsoleti. Risorse per gli acquisti dai fondi europei
Se le liste d’attesa si allungano, se aumentano le diagnosi tardive di tumore, se sempre più giovani medici fuggono all’estero e l’assistenza domiciliare resta un miraggio per la quasi totalità dei nostri anziani si deve anche al Jurassic park tecnologico della nostra sanità, dove l’89 per cento delle strutture utilizza macchinari obsoleti. Ora il Pnrr finanzia con 1,2 miliardi il rinnovo del parco macchine ospedaliero, ma il rischio è che non ci siano industrie disposte a consegnare le apparecchiature diagnostiche. Questo perché il governo proverà a non far pagare alle imprese il miliardo circa di pay back, ossia il ripiano dello sfondamento del tetto di spesa per il periodo 2019-22, così come pare disposto ad aumentare lo stesso tetto di spesa di due miliardi in due anni, al ritmo di poco meno di 700 milioni l’anno. Per l’altro miliardo che resta da saldare per il 2015-18 niente da fare. Le centinaia di aziende che hanno presentato riscorso al Tar hanno già minacciato di ritirarsi dal mercato se costrette a saldare il conto di quello che hanno ordinato Asl e ospedali.