Il legame è forte e lo stabilisce l’ultimo rapporto presentato ieri a Ginevra dall’Ipcc, il Comitato scientifico dell’Onu sul clima, intitolato “Cambiamento climatico e territorio”. Perché lo sfruttamento della terra da parte dell’uomo è responsabile, da solo, del 23% delle emissioni di gas a effetto serra e ciò include l’agricoltura, il processo di deforestazione e i sempre più estesi e devastanti incendi boschivi; se si aggiungono le attività di pre e post-produzione della catena dell’industria alimentare, la quota sale al 37 per cento.
Ed è un serpente che si mangia la coda, come rilevano gli esperti. Le risorse sono infatti sottoposte a un duplice stress: quello dell’attività umana e quello dello stesso cambiamento climatico, con un susseguirsi di fenomeni atmosferici sempre più estremi e tali da causare danni irreparabili ai raccolti e alle colture. «È una tempesta perfetta – ha commentato Dave Reay, professore all’Università di Edimburgo, specialista nella gestione delle emissioni di Co2 -: terreni sempre più ridotti, popolazione in crescita esponenziale, il tutto avvolto da una soffocante coperta di emergenza climatica».
La temperatura sulla terraferma cresce a un ritmo doppio rispetto alla media globale: la prima, è salita di 1,53 gradi rispetto al periodo pre-industrializzazione; la seconda, nello stesso periodo, è aumentata di 0,87 gradi. Sarà quindi essenziale, raccomanda il rapporto, ridurre le emissioni di Co2 sia nell’agricoltura sia nell’industria alimentare (si veda l’analisi a fianco). Logica conseguenza di questa raccomandazione sarà una progressiva, ma importante, modifica delle nostre abitudini in materia di cibo, dando più spazio agli alimenti vegetali. Cambiamenti in questo senso nel regime dietetico possono ridurre le emissioni nocive di circa 8 miliardi di tonnellate all’anno, ordine di grandezza equivalente all’emissione di Co2, sempre annua, di Stati Uniti e India messi assieme. Si tratta però di uno scenario estremo, ipotizzabile solo nel caso di una completa conversione dell’umanità al cibo vegano.
Oggi, inoltre, il 25-30% della produzione alimentare va persa o finisce nella spazzatura. Eliminare un simile spreco – che equivale a un 8-10% di emissioni di gas a effetto serra – sarebbe già un risultato importante verso l’obiettivo finale.
Se non sarà fermato o rallentato, il riscaldamento climatico porterà a ondate di siccità, metterà in pericolo la sicurezza delle forniture alimentari in molte zone del pianeta e a sua volta genererà nuovi e incontrollabili flussi migratori.
Il rapporto giunge in un momento politicamente favorevole, almeno in Europa. Tre grandi Paesi (Francia, Germania e Gran Bretagna) sono determinati ad azzerare le emissioni nette di Co2 entro il 2050 premendo per un accordo a livello Ue entro l’anno, sempre che si riescano a superare le resistenze dei Paesi dell’Est, ancora molto legati all’energia sviluppata dalle centrali a carbone.
La stessa nuova presidente della Commissione europea, la tedesca Ursula von der Leyen, ha promesso un «Green New Deal» nel suo discorso programmatico, anche tenendo conto del crescente peso politico dei Verdi nel suo come in altri Paesi e forse la Germania pensa a un pacchetto sostanzioso di investimenti pubblici per la protezione del clima.
Il report dell’Ipcc si sofferma inoltre sul ruolo delle grandi foreste. La drastica riduzione della loro superficie rende più difficile la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra poiché viene meno la loro grande capacità di assorbimento di Co2. Ridurre la deforestazione comporterebbe tagli di 0,4-0,5 gigatonnellate equivalenti di ossido di carbonio.
Attilio Geroni