La sicurezza dei pazienti è uno dei punti critici e pertanto uno degli obiettivi prioritari per tutti i sistemi sanitari e rappresenta uno degli elementi centrali per la promozione e la realizzazione delle politiche di governo clinico. Si stima che, nel mondo, circa 98mila pazienti muoiano ogni anno in ospedale a causa di errori medici prevenibili. La maggior parte di questi errori sono conseguenza di processi o condizioni difettose del sistema e tra queste rientra l’eccessivo carico di lavoro degli operatori.
Negli ultimi anni i Servizi Sanitari di tutti i paesi industrializzati hanno aumentato notevolmente il loro carico di lavoro per il crescente invecchiamento della popolazione con bisogni di salute complessi con difficoltà da parte dei servizi territoriali a fornire l’assistenza necessaria e conseguente l’aumentato ricorso ai servizi ospedalieri.
Posti letto ad alto tasso di occupazione
L’analisi della King’s Fund inglese ha evidenziato un aumento del 17% degli accessi in Pronto Soccorso dal 2003/2004 al 2015/2016, un incremento dal 19% al 27% dei tassi di ammissione ospedaliera dagli anni 2003/04 agli anni 2015/16 e un incremento del tasso di occupazione posti letto pericolosamente alto (oltre l’85%). Questo incremento, di cui un terzo si è verificato negli ultimi due anni, rappresenta il singolo incremento più grande nel volume di assistenza all’interno di qualsiasi altro settore.
Nonostante ciò le risorse destinate alla sanità sono rimaste pressoché stabili negli anni con il risultato che a parità di risorse l’aumento del numero delle prestazioni ha comportato l’incremento del carico lavorativo degli operatori, una deregulation dell’orario di lavoro e un peggioramento dell’integrità psicofisica degli operatori con evidenti conseguenze sul rischio clinico.
Quando gli ospedali sono sovraccarichi con un tasso di occupazione posti letto che raggiunge la soglia di criticità i pazienti sono i primi a subirne le conseguenze in termini di mancanza di continuità clinica e di riduzione della qualità e della sicurezza delle cure. È ben noto come un ospedale con un indice di occupazione del posto letto > 90% ha abbia un limitato lavoro elettivo e un importante ritardo per nella gestione di gravi malattie croniche.
La duplicazione dei reparti
In mancanza di posti letto nei reparti specifici i pazienti vengono allocati in altri reparti realizzando il cosiddetto fenomeno degli appoggi, noto a tutti come situazione ad alto rischio clinico. Un fenomeno presente da almeno trent’anni ma, se associato al dato sulla contrazione dei posti letto (situazione particolarmente significativa in Italia), è facilmente intuibile come porti a tassi di occupazione al di sopra del 100% con veri e propri reparti duplicati in altri a iso-personale e al conseguente turn-over “forzato”.
Malati medici si ritrovano ricoverati nelle degenze chirurgiche e viceversa, soggetti con elevati bisogni sono inseriti in un sistema a bassa offerta e soggetti con modesti bisogni sono inseriti in un sistema ad alta offerta in quanto l’allocazione dei pazienti non dipende più dalla loro patologia o condizione clinica, ma è conseguente alla necessità di trovare un posto letto con l’unico risultato evidente di “stressare” il sistema.
La “terra di mezzo” dei malati “appoggiati”
Il malato “in appoggio” rischia di diventare un malato della “terra di mezzo”: giuridicamente appartiene ad un medico che non è fisicamente sempre presente e prontamente rintracciabile, assistenzialmente appartiene a degli infermieri che non sempre per tipologia e complessità di assistenza sono in grado di gestirlo.
Il medico degli “appoggi” si trova a dover gestire un carico di pazienti aggiuntivo oltre a quelli “tabellari” e il paziente “in appoggio” rischia di essere vittima del sistema di cura anziché centro del sistema di cura. Tutto ciò si traduce in un sovraccarico di ansia e stress sia per il medico, che percepisce un chiaro peggioramento delle condizioni lavorative, sia da parte del per il paziente che subisce la frammentazione della cura con ben documentate ripercussioni sugli outcome clinici.
E il rischio clinico si impenna
Nell’attuale situazione il paziente in “appoggio” rappresenta di per sé una condizione ad alto rischio clinico inteso sia come condizione o evento potenziale sia come causa di errore attivo o di errore latente. La somministrazione di un farmaco sbagliato, commesso da un operatore che ha poca dimestichezza con la tipologia del paziente da lui in “appoggio”, rappresenta un errore attivo, ma è anche un errore latente in quanto conseguente a un’insufficienza organizzativa-gestionale del sistema, che attraverso il fenomeno degli “appoggi” ha creato le condizioni favorevoli al verificarsi dell’errore. E Come sostenuto da molti, quindi, la maggior parte degli errori è dovuta a carenze del sistema e non a negligenza dei singoli.
Priorità alla salute psico fisica dell’operatore clinico
Il mantenere la salute psicofisica dell’operatore clinico e il garantire la sicurezza dell’assistenza ai pazienti devono essere obiettivi importanti per le organizzazioni sanitarie in quanto sono fenomeni intimamente correlati. La Direttiva 88/2003 CE sull’orario di lavoro rappresenta una tappa fondamentale del modello sociale europeo, poiché assicura una protezione minima a tutti i lavoratori contro orari di lavoro eccessivi e contro il mancato rispetto di periodi minimi di riposo.
Stop alla deregulation dell’orario di lavoro
Nel 2008 in Italia è stata legalizzato una deregulation dell’orario di lavoro attraverso l’abrogazione, per i soli dirigenti del Ssn, del limite massimo di lavoro giornaliero e settimanale e della normativa sui riposi giornalieri e settimanali. Dopo il deferimento del Governo Italiano alla Corte Europea, la legge del 30 Ottobre 2014 ha ripristinato la normativa, anche per i medici italiani. Una recente survey promossa da Anaao Assomed ha comunque evidenziato, come quasi la metà degli intervistati non rispetti la normativa per esigenze di servizio.
Ma la mancata fruizione del periodo di riposo o un eccessivo orario di lavoro può essere una scelta individuale magari anche imposta? La giurisprudenza e la sicurezza del paziente ci dicono di no. Il protrarsi dell’attività lavorativa in condizioni routinarie oltre l’orario di lavoro previsto dalle normative vigenti viene considerato in caso di evento avverso una condotta “imprudente” e costituisce un’aggravante ritenendosi come volontaria l’accettazione del turno irregolare e dei rischi connessi.
La letteratura ci dimostra come eccessive ore lavorative oltre ad avere importanti ripercussioni sulla salute dell’operatore (aumentato rischio di puntura accidentale, aumentato rischio di malattie cardiovascolari e metaboliche, eventi cerebrovascolari e patologie neoplastiche, come il tumore della mammella nelle donne) possono avere importanti ricadute sulla salute del paziente. Eccessive ore lavorative e un eccessivo carico di lavoro specie nel periodo notturno inducono performance cognitive paragonabili a quelle che si hanno con un tasso alcolemico di 0.4-0.5%. Pertanto l’eccessivo carico lavorativo ricade non solo su chi lo subisce ma su tutta la comunità.
È curioso come un editoriale pubblicato su “Lung”, oltre a riportare tutti gli effetti nefasti di un duro lavoro sulla salute degli operatori sanitari, sottolinei come essendo la cultura di ore eccessive ben consolidata tra tutti i medici e quindi difficilmente cambiabile è la comunità che deve attuare e pretendere il cambiamento ideando nuove strategie di programmazione e pianificazione sanitarie per evitare che i rischi sanitari siano conseguenza di uno stato di fatica cronica degli operatori sanitari.
Un incremento importante e prolungato dell’orario di lavoro e del carico di lavoro sono associati non solo a un aumentato rischio di malattie organiche dell’operatore, ad un peggioramento oggettivo delle performance cognitive e quindi ad un incremento del rischio clinico per il paziente, ma anche a disturbi della sfera psichica come la sindrome da burnout.
Quando il medico è “fuso”
Il burnout, tradotto letteralmente dall’inglese in “bruciato”, “fuso”, indica una condizione di esaurimento emotivo, irrequietezza, apatia, depersonalizzazione e senso di frustrazione che colpisce prevalentemente gli operatori di professioni ad elevato investimento relazionale come quelli del settore sanitario. I medici o gli infermieri sottoposti a carichi di lavoro e stress eccessivi iniziano a perdere progressivamente l’empatia fino al raggiungimento della “morte professionale”, ossia la completa indifferenza verso la propria professione.
E tutto ciò, oltre ad avere degli evidenti effetti drammatici sul piano individuale, ha degli indubbi effetti negativi particolarmente sul piano organizzativo e lavorativo con il calo della qualità del servizio, il calo della performance e l’aumento dell’assenteismo. Nonostante in letteratura pochi studi indagano indaghino la correlazione obiettiva tra burnout dell’operatore e sicurezza del paziente alcuni studi lavori dimostrano come medici e infermieri affetti da burnout riportano più eventi avversi. L’operatore in burnout non ha più le energie necessarie per affrontare il proprio lavoro e potrebbe non investire l’energia necessaria a fornire assistenza sicura al paziente, ad esempio trascurando l’igiene delle mani o evitando il doppio controllo durante la preparazione del farmaco. Potrebbe anche essere meno attento e pronto ad affrontare situazioni impreviste come il peggioramento repentino della salute del paziente. La realizzazione personale è concettualmente vicino all’auto-efficacia (self-efficacy), vale a dire la convinzione di essere in grado di svolgere un compito contribuisce allo svolgere con successo un compito impegnativo.
Le persone con self efficacy hanno prestazioni migliori perché vedono il compito da svolgere come una sfida piuttosto che una minaccia. Le persone affette da burnout hanno una netta diminuzione del senso di realizzazione personale e della convinzione di poter completare il proprio compito dando un contributo significativo. In una recente survey, “Lavorare sotto pressione”, promossa dal Royal College of Physicians rivolta ai medici inglesi, l’82% degli intervistati riteneva il personale sanitario estremamente demoralizzato dall’eccessivo carico lavorativo conseguente alla carenza di personale sia medico che infermieristico. Il 55% dei medici riteneva che la sicurezza del paziente si era fosse ridotta negli ultimi 12 mesi per un contemporaneo notevole peggioramento della qualità delle cure nell’ultimo anno e il 74% affermava quindi di essere estremamente preoccupato per l’assistenza che avrebbe potuto fornire ai pazienti nei successivi 12 mesi. Anche una recente survey italiana promossa dall’Anaao, sindacato medico, aveva evidenziato alti tassi di burnout tra gli operatori sanitari italiani.
In un sistema di organizzazione industriale, inteso come un insieme non solo di uomini ma anche di macchine e attrezzature finalizzato alla produzione e al profitto, l’aumento del carico lavorativo può sicuramente avere indubbi vantaggi. Ma in ambito lavorativo dove la forza lavoro è fatta solo di “persone” e il “prodotto finito” è il paziente questa programmazione lavorativa comporta solo evidenti criticità. In conclusione la sicurezza delle cure è uno specifico processo che porta mira ad evitare, prevenire e mitigare effetti avversi o danni derivanti dal processo di assistenza sanitaria. L’eccessivo carico di lavoro degli operatori mette a repentaglio la sicurezza delle cure che essendo parte costitutiva del diritto alla salute deve essere sempre perseguita nell’interesse soprattutto dell’individuo e della collettività.