Il Sole 24 Ore. Dall’autunno 2021 è in corso una grave epidemia di influenza aviaria (H5N1) che ha portato all’abbattimento di milioni di animali. Situazione critica a causa di una circolazione elevata e dei salti di specie. Alcune varianti rendono più facile l’infezione dei mammiferi
Si alza in Europa l’allarme per l’influenza aviaria, che finora ha colpito uccelli selvatici e pollame di allevamento. L’Oms ha infatti reso noto che in Polonia il virus A/H5N1 è stato riscontrato nei gatti, mostrando così la sua capacità di fare il salto di specie verso i mammiferi. Ad oggi sono 29 i casi certificati: i gatti si sarebbero ammalati tutti nelle ultime due settimane, il che permette di parlare di un primo, vero e proprio focolaio felino.
Dalla prima segnalazione da parte delle autorità sanitarie polacche, che risale al 27 giugno, sono stati testati 47 felini tra domestici e selvatici: «Di questi – riferisce l’Oms – 14 sono stati soppressi e altri 11 sono morti». L’organismo internazionale al momento non si sbilancia: «La fonte dell’esposizione al virus aviario è sconosciuta, le indagini sono in corso. Al 12 luglio, nessun contatto umano dei gatti positivi al virus A/H5N1 ha riportato sintomi e il periodo di sorveglianza è terminato per tutti i contatti». Il rischio di contagio per l’uomo è dunque valutato come «basso per la popolazione generale», e «da basso a moderato per i proprietari di gatti e per coloro che per ragioni professionali, come i veterinari, sono esposti al contatto con gatti infettati senza l’uso di adeguati dispositivi di protezione». Alcuni dei gatti infetti hanno sviluppato sintomi gravi, tra cui difficoltà respiratorie e segni neurologici.
in Italia, il Ministero della Salute ha ritenuto opportuno, con una nota inviata alle Regioni, Izs e Centro di referenza del 14 luglio scorso, che i veterinari liberi professionisti, qualora rilevino sintomi sospetti (apatia, perdita di appetito, depressione grave, febbre, seguiti nel giro di poco tempo da forme nervose come ad es. paralisi, epilessia, nistagmo, anche in associazione con sintomi respiratori e/o enterici, ittero) in carnivori domestici potenzialmente esposti a contatto con animali malati o deceduti in aree dove si sono verificati fenomeni di mortalità negli uccelli selvatici per HPAI, valutino il possibile invio di campioni (tamponi orofaringei) agli Izs territorialmente competenti per l’esecuzione di prove diagnostiche nei confronti dell’influenza aviaria. In caso di decesso la carcassa di questi soggetti dovrà essere inviata agli Izs territorialmente competenti per completare gli esami diagnostici.
Il virus A/H5N1 è una vecchia conoscenza del continente. Tra l’autunno del 2021 e settembre del 2022 l’Europa ha registrato la sua più grave epidemia di aviaria per numero di focolai nel pollame, per diffusione geografica e per quantità di uccelli selvatici morti. L’Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, allora registrò 2.520 focolai tra il pollame d’allevamento, 227 tra gli uccelli in cattività e 3.867 casi tra gli uccelli selvatici. Nessun Paese europeo fu risparmiato, con concentrazioni più elevate in Francia, Belgio, Olanda e anche Italia. Quell’anno, per evitare una massiccia diffusione del contagio tra gli allevamenti avicoli, furono abbattuti qualcosa come 50 milioni di animali, di cui 15 milioni soltanto nel nostro Paese. Ad oggi non ci sono prove che l’influenza aviaria possa trasmettersi all’uomo tramite il consumo di prodotti contaminati derivati dal pollame. Il contagio dagli animali all’uomo, assicura l’Efsa, può avvenire essenzialmente in due modi: direttamente dagli uccelli oppure da ambienti contaminati.
Il focolaio felino appena scoperto in Polonia coincide con una ripresa dei contagi negli allevamenti di pollame polacco. Secondo il più recente bollettino dell’Efsa, nel corso dell’ultimo autunno-inverno (anche l’influenza aviaria è un virus stagionale) i contagi sono stati portati soprattutto dai gabbiani. Rispetto al 2021-2022, però, il numero dei focolai è diminuto: “solo” 522 domestici e 1.138 selvatici.
«Tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023 – racconta Antonio Forlini, presidente di Unaitalia, l’associazione che raggruppa i principali allevatori avicoli nazionali – in Italia abbiamo avuto solo una quindicina di focolai e solo qualche centinaia di migliaia di abbattimenti. Oggi i focolai certificati dalle autorità sanitarie sono sette e riguardano allevamenti di galline ovaiole e di tacchini, per un totale di un milione di animali circa». Gli ultimi due casi sono stati segnalati proprio nei giorni scorsi: uno in un allevamento rurale del Bresciano e l’altro in un centro di ripopolamento di fagiani nel Pavese.
La Francia, colpita soprattutto nei suoi allevamenti di anatre, sta già correndo ai ripari: il ministero dell’Agricoltura di Parigi ha siglato un contratto con la tedesca Boehringer Ingelheim per la fornitura di 80 milioni di dosi di vaccino contro il virus A/H5N1, la cui somministrazione agli animali comincerà a partire da ottobre. «Attualmente nell’Unione europea sono autorizzati due vaccini contro l’influenza aviaria, Nobilis Influenza H5N2 e Pa-Olvac – ha fatto sapere il portavoce della Commissione europea, Stefan De Keersmaecker – la Commissione ha firmato contratti di riserva per l’acquisto di questi vaccini in caso di pandemia: uno con Gsk e l’altro con Seqirus Uk».
La verità, però, è che con la vaccinazione degli animali in Italia e in Europa si sta andando a rilento: «Nel nostro Paese, così come nel resto del Vecchio continente – sostiene Forlini – i vaccini si stanno sperimentando, ma sono ancora poco diffusi. Il fatto è che il costo è ancora elevato. Inoltre nei tacchini, che sono tra gli animali più longevi, si è visto che nel lungo periodo non restano immunizzati. Ma soprattutto, gli animali vaccinati non sono più esportabili, in quanto la legislazione li equipara a quelli infetti».
Situazione critica a causa di una circolazione elevata e dei salti di specie. Alcune varianti rendono più facile l’infezione dei mammiferi
Non si tratta della prima segnalazione sui felini della presenza di virus influenzali a elevata patogenicità o HPAI (highly pathogenic avian influenza): negli stessi giorni in cui scoppiava il caso placco, su Emerging Infectious Diseases usciva un dettagliato articolo su un caso identificato in Francia a fine 2022, in un gatto che viveva vicino a un allevamento di anatre, poi deceduto, mentre altri casi erano emersi in Thailandia e in Germania nel 2006, e poi in Italia, dove nei mesi scorsi c’è stato il contagio di cinque cani e un gatto che vivevano in un allevamento di pollame. E non si tratta neppure di un unicum: un altro spillover dai volatili selvatici ha riguardato, nei mesi scorsi, un allevamento di visoni in Spagna, con conseguente abbattimento di oltre 52.000 capi, per citare solo gli ultimi casi sul suolo europeo.
La situazione, secondo la maggior parte degli esperti, sarebbe quindi critica, anche se al momento non si pensa che ci siano rischi immediati per l’uomo; del resto, il caso dei felini conferma sia l’elevata circolazione virale sia i salti di specie. Inoltre, le varianti dei virus identificate sono numerose, e tra esse ve ne sono alcune, come quella che ha ucciso il gatto francese, che presentano riarrangiamenti genetici (che talvolta arrivano dai gabbiani) che rendono più facile l’infezione dei mammiferi.
Oltre a tutto ciò, c’è poi un ruolo specifico della crisi climatica, perché l’innalzamento delle temperature ha provocato la perdita della stagionalità di queste epidemie: mentre fino a poco tempo fa durante l’estate il rischio era bassissimo, ora non ci sono distinzioni tra i diversi periodi: quest’anno le epidemie non hanno dato alcun segno di cedimento nella stagione calda.
Così, se nel 2022 nella sola Europa sono stati abbattuti in via precauzionale circa 50 milioni di volatili di allevamento (negli Stati Uniti almeno 58 milioni), il 2023 sta procedendo verso nuovi record, anche se si intravede verso qualche timido segnale positivo, perché i contagi sarebbero giunti a una stabilizzazione e, in qualche zona, mostrerebbero un timido inizio di diminuzione.
Probabilmente, ciò è dovuto alle reazioni dei diversi paesi, che si stanno facendo più incisive. Secondo l’Oms, sono infatti ormai una trentina quelli che hanno dato il via a campagne estese di vaccinazione. Tra questi Messico, Guatemala, Honduras, El Salvador, e poi Stati Uniti (che preferiscono non lanciare campagne estese ma procedere in base alle segnalazioni oppure su specie come i condor), Cina, Egitto e altri ancora: tutti paesi che, dal 2005 a oggi, per fronteggiare epidemie costate miliardi di euro e decine di milioni di animali, nonché, nel loro insieme, diverse decine di vittime umane, hanno avviato programmi di immunizzazione. Lo stesso ha fatto l’Europa, dove da maggio sono state lanciate le sperimentazioni sulle anatre in Francia (il paese che ha subito le crisi peggiori, con oltre 20 milioni di volatili soppressi, e che è il primo ad aver poi deciso di procedere con le vaccinazioni), e nei Paesi Bassi, sulle galline ovaiole, in Italia, sui tacchini e in Ungheria, sulle anatre. Anche se nessuno si illude di risolvere con un vaccino, vista la sua trasmissione attraverso i volatili selvatici, di certo l’immunizzazione può contenerne l’espansione, se eseguita seguendo regole certe.
Intanto l’Agenzia per la sicurezza alimentare europea, l’EFSA di Parma, ha appena reso noto il suo rapporto, nel quale invita ad aumentare la sorveglianza, perché l’aviaria sta dilagando dalla Norvegia al Mediterraneo, mentre continua il reperimento di uccelli morti anche nelle zone interne, e non solo sulle coste.