Il Sole 24 Ore, Micaela Cappellini. Da un lato c’è l’export, che cresce del 14,8%. Dall’altro ci sono le vendite sul mercato interno, che all’inizio di quest’anno hanno accusato un calo tra il 4 e l’8%. Il futuro del food italiano è tutto compreso tra queste due spinte, una verso l’alto e l’altra verso il basso. Chi spingerà di più?
Il 2022 ha dato grandi soddisfazioni all’industria alimentare sui mercati internazionali. Le esportazioni hanno sfondato il tetto dei 60 miliardi di euro e il merito è stato un po’ di tutti i comparti, dal vino alla pasta. Solo la frutta (mele e uva da tavola in particolare, ricorda l’Ismea) non ha saputo correre allo stesso passo. Quello dell’export è ormai un fenomeno consolidato, un punto fermo su cui il made in Italy agroalimentare può contare per fare cassa. Calcola sempre l’Ismea che, negli ultimi dieci anni, il valore delle esportazioni di food & beverage italiane sono cresciute dell’81%. In pratica, sono raddoppiate. Anche nel 2020, quando a casua del Covid i ristoranti vennero chiusi praticamente in tutto il mondo, le esportazioni di alcuni prodotti agroalimentari nazionali crebbero comunque colto rispetto all’anno precedente: segno che il consumo all’’stero del cibo made in Italy non è solo legato ai pasti fuori casa, ma fa ormai parte delle abitudini quotidiane in molte aree del mondo.
Al contrario, sul mercato interno aumentano sempre di più i segnali di sofferenza. Dall’ultimo rapporto sul Benessere equo e sostenibile in Italia dell’Istat, pubblicato pochi giorni fa, emerge chiaramente che la percezione della situazione economica delle famiglie è peggiorata. La quota delle persone che dichiarano di aver visto deteriorarsi la propria condizione rispetto all’anno precedente è di oltre uno su tre, un livello mai raggiunto in precedenza.
Malgrado gli effetti dirompenti del conflitto in corso tra Russia e Ucraina, Federalimentare assicura che l’industria alimentare italiana nel 2022 ha tenuto duro, ma ammette che l’avvio del 2023 è stato molto difficile: «Lo straordinario aumento dei costi – si legge in una nota dell’associazione – ha spinto progressivamente i prezzi alla produzione verso l’alto tra il +14% e il +17% tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023».
Il settore è stato accerchiato sia dall’aumento dell’energia, che ha impattato su tutta la catena del valore – dagli imballi alla produzione, dai trasporti ai magazzini refrigerati – sia da quello dei costi delle materie prime, che già aveva cominciato a farsi sentire prima dell’invasione dell’Ucraina.
Le industrie dicono di aver fatto il possibile per non scaricare a valle, sul consumatore finale, tutti gli aumenti subiti: «Abbiamo evitato – scrive Federalimentare – di adeguare automaticamente il prezzo di vendita all’aumento dei costi di produzione. Gli inevitabili incrementi di listino sono stati il più possibile spalmati nel tempo, alla ricerca di un giusto equilibrio tra la necessità di scongiurare un’emorragia dei consumi e quella di garantire la sopravvivenza delle aziende e dei posti di lavoro». Molto ora dipenderà da quanto questi costi si abbasseranno. Le attese sono tutte per la seconda parte dell’anno: «Dal dicembre scorso – scrive ancora l’associazione degli industriali – è in corso una lieve ma costante tendenza al rientro dei costi di produzione, che ha condotto a marzo a una leggera diminuzione dei prezzi al consumo dei prodotti alimentari. La contestuale riduzione dell’inflazione fa sperare che nel secondo semestre del 2023 si possa tornare su valori fisiologici».
La tenuta dei consumi e il contenimento dei costi di produzione non sono le uniche due sfide che l’industria alimentare italiana dovrà affrontare quest’anno. Sullo scacchiere europeo, per esempio, si agitano molte questioni. La prima resta il Nutriscore, l’etichetta a semaforo che attribuisce bollino rosso o verde a un determinato cibo senza tenere conto della effettiva quantità che se ne consuma: la Commissione europea avrebbe dovuto presentare la sua proposta di etichettatura nutrizionale entro il 2022 ma non l’ha fatto, forse rendendosi conto che sul tema c’era una forte spaccatura tra i Paesi membri. Ma non è detto che non cambi idea prima della fine del suo mandato.
L’altra possibile etichetta che preoccupa l’industria alimentare italiana è quella dei cosiddetti “health warnings”, gli allarmi salutisti sulle bottiglie di vino: se venissero approvati dall’Ue, o si diffondessero in alcuni mercati importanti per l’export italiano – il Canada, per esempio, si sta già muovendo – costituirebbero un precedente pericoloso, poiché per la prima volta verrebbe comunicato in etichetta un legame diretto tra un nutriente, in questo caso l’etanolo, e una malattia, il cancro.
Bruxelles ha inofine aperto il file degli imballaggi, per i quali intende promuovere la filosofia del riuso anzichè quella del riciclo: un problema di non poco conto, per le imprese alimentari italiane, che da anni hanno investito nelle confezioni riciclabili.