Metti un pomeriggio d’estate al Pronto Soccorso dell’ospedale Sant’Antonio, a Padova. Sono le tre, sala d’aspetto, corridoio, ingresso, ambulatori e area di osservazione breve sono pieni: tanti anziani disidratati, pazienti con traumi ortopedici, ragazzi e adulti colpiti da malori e problemi intestinali affollano ogni spazio. Tutto sotto controllo, ma ciò che colpisce è il modo in cui malati e parenti trattano il personale sanitario: «Serve una sedia a rotelle, muovetevi», ordina una signora all’infermiera del Triage, impegnata nell’assegnazione dei codici colore a seconda della gravità del dolore. Ma perchè? L’uomo che la donna accompagna è grande e grosso, avrà quarant’anni e ha solo un fazzoletto che copre una piccola ferita sul polpaccio, niente di drammatico. E le carrozzine sono finite.
«Mi vogliono mettere in bocca quella merda perchè ho mancanza di potassio e magnesio — dice all’amica una giovane obesa e pallida ad alta voce, per farsi sentire dall’operatore sociosanitario che controlla la situazione —. Col cavolo, se la mangino loro, io me ne vado». Ma non si regge in piedi. «Dottore — si rivolge un ragazzotto zoppicante al primario, Maurizio Chiesa, parlando in dialetto che qui traduciamo — devo andare a mangiare, sennò vado fuori di testa. Vedete di non chiamarmi in questi dieci minuti di assenza, altrimenti quando torno mi inc..zo». E che dire della figlia di un anziano, peraltro già stabilizzato e tranquillamente a colloquio col medico, che si sdraia su una barella come fosse un lettino da spiaggia? «Aahh, sono stanca morta e c’è un caldo boia. Mi riposo un attimo, tanto prima che lo dimettano ci vorrà una mezz’ora». Gentilmente un Oss le fa notare che le barelle sono lì per i malati: «E infatti mi gira la testa», è la risposta.
Storie di ordinaria follia nell’unico reparto ovunque aperto h24 e quindi primo front office di sofferenti veri, imbroglioni che vanno a farsi le analisi per saltare le liste d’attesa (ma poi devono pagare il ticket e allora si scatena l’inferno) e familiari cafoni. Tutti pronti ad alzare la voce, e qualche volta le mani, se non «serviti subito», come pretende una signora, quasi fosse al ristorante. «Il nostro Pronto Soccorso registra 30mila accessi all’anno — spiega il dottor Chiesa — d’inverno prevalgono i casi di influenza e malattie infettive, d’estate aumentano la traumatologia, i colpi di calore, le congestioni, le ustioni. Le aggressioni verbali sono all’ordine del giorno, soprattutto contro il personale non medico, di frequente gli utenti si lasciano andare a insulti e offese. C’è una certa animosità, soprattutto da parte dei codici bianchi e verdi, che non sono in pericolo di vita e quindi devono aspettare di più: non sono rare le minacce, che talvolta degenerano in aggressioni fisiche. Insomma, subiamo una grande pressione da parte dell’utenza: tutti vogliono una soluzione subito e anche se il problema è di poco conto è percepito come enorme».
E infatti chi lavora in Pronto Soccorso si aspetta di tutto: dal parente che filma con il telefonino l’operato del medico, «così se servisse abbiamo una prova di quello che ha combinato», al saccente di turno. «E’ sempre più frequente trovare un paziente che si faccia l’autodiagnosi — racconta un camice bianco —. Per esempio mi chiede: dottore, perchè non mi fa la gastroscopia? Oppure: guardi che la visita da sola non basta, ci vuole una RX al torace. Usano proprio i termini medici, magari li hanno letti su Internet e ogni volta siamo costretti quasi a giustificare le procedure previste per quella patologia. La conflittualità a priori da parte del malato è una grave difficoltà in più da affrontare per chi svolge questo mestiere. La fiducia incondizionata di cui godeva in passato che so, il medico condotto piuttosto che il chirurgo, è solo un bel ricordo».
Intanto un signore in braghe corte si fa un sonnellino in sala d’attesa. La moglie viene a chiamarlo, lo scuote: «Dai, il medico ci vuole parlare»; e l’uomo, infastidito: «Digli che venga qui lui, è pagato»
corveneto