Cavalcare l’onda ambientalista per non rimanerne travolti. Paolo Tassani, presidente di Agrofarma-Federchimica, l’Associazione che rappresenta 32 imprese italiane degli agrofarmaci, spiega quanto il comparto sia concentrato nel promuovere soluzioni sempre più orientate verso una maggiore tutela della salute e dell’ambiente.
Alla crescita costante dei fatturati negli ultimi anni, ha fatto da contraltare un calo dei volumi, dato che il presidente attribuisce all’alto tasso di innovazione del settore: ogni anno 30 milioni di euro– il 3% del fatturato annuo – sono investiti in ricerca e sviluppo. Finita l’epoca delle grandi aggregazioni, oggi il focus è su quelle start up in grado di produrre biosolution o biostimolanti.
Presidente Tassani, i dati dell’ultimo Osservatorio Agrofarma ci raccontano un comparto arrivato al traguardo degli 1,1 miliardi di fatturato nel 2022, in crescita del 35,8% rispetto al 2018. Negli anni la crescita valoriale è stata lieve, ma costante. Come si coniuga questo trend con la transizione green in atto in Europa?
Perfettamente in sintonia, perché a questi dati fa da contraltare una riduzione delle quantità.
Negli ultimi 20 anni il volume di prodotti fitosanitari impiegati in agricoltura in Italia (a differenza di altri Stati) è diminuito costantemente: un dato che identifica la presenza di una innovazione crescente nel nostro Paese.
Le politiche ambientaliste dell’Europa sembrano aver subito una battuta d’arresto negli ultimi mesi. Penso in particolare alla direttiva Sur che si proponeva di dimezzare l’uso di fitofarmaci al 2030, ritirata dalla Commissione, su richiesta della presidente von der Leyen. Giusto cassarlo
tout court?
Farm to Fork e Green Deal pongono un obiettivo condivisibile. Ciò che noi abbiamo sempre contestato rispetto alla direttiva Sur era la roadmap, proprio perché non tenevano in considerazione il percorso già avviato da alcuni Paesi a differenza di altri: i cosiddetti tagli lineari, che penalizzano chi è già virtuoso.
Si spieghi meglio…
Prendiamo i residui di fitofarmaci negli alimenti. Sul tema, l’Italia è il Paese più virtuoso in Europa e questo pone i nostri prodotti e le nostre derrate ad un livello molto alto. Questo è il conflitto più grande: abbiamo una sostenibilità nella nostra agricoltura particolarmente elevata, ma ci viene richiesto di fare un ulteriore percorso, esattamente come quei Paesi in cui questo percorso non è stato neanche avviato. E questo naturalmente rischia di penalizzare i nostri produttori, che si ritrovano a sostenere costi superiori, senza che gli venga riconosciuto il dovuto ritorno.
Gli agrofarmaci hanno vissuto fasi di aggregazione venti anni fa e negli ultimi cinque-dieci anni. Oggi che la concentrazione è già molto elevata, in quali ambiti si sta espandendo l’industria?
Si assiste soprattutto ad acquisizione di start up dell’agritech o aziende che producono tecnologia: in particolare prodotti con caratteristiche diverse, le cosiddette biosolution, oppure prodotti che si coniugano molto bene per lo sviluppo delle colture con gli agrofarmaci, come i biostimolanti. Più rari i casi di fusione tra aziende, che quasi sempre comportano dazi elevati all’Antitrust.
L’industria si è attivata anche per intercettare la crescente propensione al biologico: si tratta, ovviamente, di prodotti autorizzati di origine naturale e non chimica. Quali sono i dati?
Il fatturato delle vendite di prodotti autorizzati per l’impiego in agricoltura biologica nel 2023 è di 134 milioni di euro, pari a circa il 12% del fatturato totale. Una percentuale destinata a crescere: i prodotti impiegabili in agricoltura biologica, oggi, rappresentano il 20% del totale, ma gli impegni assunti dall’industria a livello europeo porteranno nei prossimi tre anni la quota al 30 per cento.