L’Italia dell’alimentare gioca all’attacco sul fronte dell’export, ma per conquistare maggiori quote sui mercati internazionali deve sviluppare un gioco di squadra per superare la frammentazione, dotarsi di mezzi finanziari adeguati e difendersi meglio dai tentativi di acquisizione dei player internazionali. Sono queste le conclusioni a cui giungono due studi elaborati da Intesa Sanpaolo e Kpmg, di cui hanno discusso ricercatori ed esperti all’Expo 2015.
«Nonostante i buoni risultati degli ultimi anni – sottolinea Gregorio De Felice, direttore dell’ufficio studi di Intesa Sanpaolo – le imprese italiane devono ancora migliorare le capacità di radicamento, anche per contrastare la perdita di quote di mercato, sia diretta sia attraverso la distribuzione o la ristorazione». De Felice aggiunge che «andare all’estero richiede strategie complesse e un’accurata preparazione: dimensioni adeguate e partner complementari sono condizioni indispensabili». Paolo Mascaretti, partner di Kpmg advisory, sottolinea che il food «oltre ad essere un business anticiclico, ha notevoli potenzialità di crescita e si presta alle aggregazioni di prodotto e aziendali. Ma servono risorse adeguate per giocare all’attacco».
Quest’anno il nostro export alimentare dovrebbe crescere di almeno il 5,5% a 28,5 miliardi, 7,5 in più rispetto al 2010. Inoltre dal 2005 i ricavi delle aziende sono aumentati al tasso medio annuo del 2,5%, performance realizzata tutta sul mercato internazionale. Un periodo magico per il made in Italy che fa leva su sapori e sapienza. Le produzioni italiane sono ben posizionate, con quote di mercato rotonde, nell’alto di gamma, sui mercati maturi, in particolare in quelli europei e negli Stati Uniti. Mentre nei Paesi emergenti sono molto più contenute, ed è proprio sui mercati lontani che sono richiesti investimenti rilevanti.
Tuttavia negli ultimi anni le società italiane del food hanno acquistato poco all’estero e di valore contenuto; più vivaci i player esteri nel nostro Paese. Negli ultimi 4 anni e mezzo (fino al primo semestre 2015) le operazioni di fusione e acquisizione di operatori esteri su società italiane sono state 44 contro le 20 delle italiane sull’estero. Il controvalore, secondo le stime di Kpmg, è stato di circa 7 miliardi.
Nel risiko mondiale dell’alimentare le imprese italiane sono più prede che predatori. Nella classifica europea dei Top player, Nestlé vanta ricavi per 76 miliardi, Unilever sfiora i 50, Danone varca di slancio i 20, Lactalis si ferma a 16 e Ferrero a 8,4 miliardi. Impressionante la concentrazione nel business della birra: il super gigante Anehuser-Busch InBev sfiora i 40 miliardi di fatturato, inseguono la sudafricana SabMiller e l’olandese Heineken a ridosso dei 20 miliardi e, a distanza, Carlsberg “arranca” a 8,6 miliardi. Peraltro è sul tappeto l’offerta di fusione avanzata da Anehuser-Busch InBev a SabMiller. Alla fine nella classifica dei Top 15 abbiamo soltanto l’italiana Ferrero.
Rimangono insomma tre nodi di fondo, sottolinea l’ufficio studi di Kpmg, legati alla dimensione limitata, alla scarsità di società quotate e a una proprietà prevalentemente familiare. «È vero – ammette Alberto Alfieri, ad di Fiorucci (controllata dal gigante spagnolo Campofrio food group) – le distinzioni sono indispensabili, ma rimane che la stragrande maggioranza delle società italiane del food sono medio-piccole. In un mercato globalizzato conta molto la dimensione aziendale e la disponibilità di capitale: altrimenti come si finanzia la crescita? E a maggior ragione questo vale per le aziende italiane che non dispongono di piattaforme distributive nazionali. Potrà sembrare banale, ma è così: i francesi, i tedeschi e gli americani hanno grandi catene commerciali che veicolano all’estero i prodotti nazionali. Noi no».
Tra le aziende italiane che hanno utilizzato la leva dell’M&A per crescere, Kpmg segnala che dall’inizio della crisi del 2008, Campari ha realizzato 13 operazioni, Granarolo 7, Illy e Lavazza 4 e Cremonini 3. «In sostanza – conclude Mascaretti – c’è una pattuglia di campioni nazionali che usa la finanza per crescere, ma è ancora poco per colmare il gap dimensionale con i competitor esteri. Bisogna riflettere sul fatto che negli ultimi 3 anni le aziende dell’alimentare sono state più prede che compratori: solo nel primo semestre di quest’anno le aziende dell’alimentare italiano passate in mano straniera sono state dieci, soprattutto di piccola e media taglia».
Le aziende italiane però non hanno mai mostrato eccessiva interesse per le aggregazioni. C’è un’alternativa all’M&A? «Sì – risponde De Felice – ed è rappresentata dalle reti d’impresa, fenomeno che nell’alimentare italiano sta prendendo piede: a giugno 2015 erano oltre mille le imprese in rete della filiera agro-alimentare».
Emanuele Scarci – Il Sole 24 Ore – 27 settembre 2015