Simona Marchetti. Bloccati dalle dighe costruite lungo il Po negli anni del boom economico, rischiavano di scomparire. Così delle tre specie autoctone di storione italiano se ne è salvata soltanto una, ora allevata nel parco del Ticino: quando Giacinto Giovannini, negli anni Settanta, acquistò gli ultimi cinquanta esemplari mise le basi per la «Storione Ticino» di Cassolnovo, nel Pavese, diventata uno dei maggiori allevamenti per la produzione di caviale made in italy.
Del caviale italiano si parlava già nel Rinascimento. Ne racconta diffusamente l’umanista Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, nel trattato «De honesta voluptate e valetudine» (Del piacere onesto e della buona salute) nel 1474. Un’usanza gastronomica confermata dal dono che Leonardo da Vinci fece a Beatrice d’Este per il suo matrimonio: delle uova di storione. La tradizione ha rischiato di morire definitivamente con l’estinzione delle tre specie autoctone italiane, l’Acipenser Sturio, l’Huso Huso, catalogate da Linneo, e l’Acipenser Naccarii. Delle tre si è salvata solo l’ultima, ora allevata nel Parco del Ticino e reintrodotta anche in natura con alterne fortune: «Gli storioni si comportano come i salmoni, devono risalire le acque del fiume per deporre le uova – conferma Sergio Giovannini, amministratore di Storione Ticino, la società che gestisce l’impianto di Cassolnovo – durante il boom economico si costruì una diga sul Po a Isola Serafini, tra Piacenza e Cremona. Non si tenne conto delle esigenze riproduttive di questi pesci, che si fermavano davanti agli sbarramenti. Vennero pescati senza pietà, fin quasi a farli scomparire». Suo padre, Giacinto Giovannini, negli anni ’70 decise di acquistare gli ultimi cinquanta esemplari di Naccarii, e cominciò ad allevarli, aggiungendo a poco a poco altre sei specie. Oggi il numero degli esemplari è tale che Ars Italica Calvisius, società del gruppo Agro Ittica, ne ricava un caviale che, non a caso, si chiama Da Vinci. Il colore delle uova, che varia di specie in specie, in questo caso è grigio scuro. «Mio nonno allevava trote, mio padre ha continuato, affiancando anche gli storioni – aggiunge Giovannini – nel 1998 abbiamo cominciato a operare nel parco del Ticino, dove ci sono le condizioni ideali». Il gruppo italiano è tra i maggiori produttori mondiali: dai suoi stabilimenti di salatura escono 25 delle 180 tonnellate commerciate a livello mondiale. Parlando sempre e soltanto del caviale legale. «Il mercato nero, soprattutto in Russia, esiste, ma non si può quantificare» aggiunge Giovannini. Tutto il caviale in commercio dovrebbe provenire infatti solo da allevamenti: da una ventina d’anni anche lo storione viene considerato tra le specie a rischio estinzione. A Cassolnovo la società riproduce e alleva diverse varietà del pesce preistorico, privo di scheletro: le femmine, giunte intorno ai 9-10 anni, si macellano per ottenere le piccole sfere scure, preziosissime una volta salate e conservate. Un chilo di Da Vinci costa poco meno di 2 mila euro. Uno storione gravido di questa età può arrivare a pesare quaranta chili, le uova raggiungono circa un decimo del peso. Ogni chilo ne contiene 25 mila e una femmina può deporne fino a 100 mila.
L’allevamento è un modo per garantire la sopravvivenza agli avannotti: i predatori in natura ne uccidono circa il 98% prima che diventino adulti. «Qui a Cassolnovo abbiamo numerosissimi esemplari – aggiunge – ammontano a circa 800 tonnellate: ci sono più storioni nel Parco del Ticino che in tutto il mar Caspio». Nell’avannotteria, dove vengono fatti riprodurre e poi allevati i piccoli, quest’anno se ne contano 40 mila, di diverse tipologie. Oltre ai bianchissimi albini, con il muso a punta e gli occhi rosa da cui presto si otterrà il caviale bianco italiano, c’è lo storione stellato, da cui si ricava il «Sevruga», c’è lo storione russo, da cui si ottiene l’«Oscietra». A Calvisano, in provincia di Brescia, lo stesso gruppo gestisce anche altri due impianti di acquacoltura da cui si ottengono anche il caviale tradition, dallo storione bianco, il beluga, dall’omonima specie, e il Siberian, dalla varietà siberiana.
La Stampa – 10 maggio 2016