A fine luglio è stato approvato il Dl Liste d’Attesa, che mette ordine in alcuni provvedimenti già esistenti, ma non risolve il problema. Servirebbe una sanità territoriale, come previsto dal Pnrr, ma quell’intervento ha le ruote sgonfie
(di Gloria Riva – lespresso.it) – È inizio giugno e, in vista delle imminenti elezioni europee, il governo di Giorgia Meloni fa due cose. Primo: il premier vola in Albania per ricordare agli italiani che i migranti – non tutti, solo una piccolissima parte –, sarà dirottata laggiù al costo (per le tasche pubbliche) di 800 milioni. Secondo: il ministro della Salute, Orazio Schillaci annuncia una riforma della Sanità, che punta soprattutto a una miracolosa riduzione delle liste d’attesa e stavolta però il progetto è a costo zero: il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, tiene i cordoni della borsa serrati. Finite le elezioni, il decreto legge, approvato il 24 luglio, è diventato un testo scarno, senza coperture finanziarie e pochi effetti tangibili sulla popolazione. Tutto il resto è finito in un disegno di legge che seguirà i tempi dell’iter parlamentare.
Si tratta tuttavia di un provvedimento che guarda al dito anziché alla luna. Partiamo da Domenico Mantoan, direttore generale Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, un tecnico di destra, che è stato per oltre un decennio il capo della Sanità veneta. Lo scorso 27 giugno ha presentato pubblicamente un report relativo all’efficienza delle liste d’attesa nel Servizio sanitario nazionale. Mantoan, esperto conoscitore del sistema pubblico, fa notare che in quattro anni – fra il 2019 e il 2023 – a fronte di un numero di medici stabili (oggi sono 128mila, contro i 127mila del passato), il numero di prescrizioni ambulatoriali è aumentato del 44 per cento (oggi sono poco meno di un miliardo l’anno), mentre il numero di risonanze magnetiche della colonna vertebrale, ad esempio, è aumentato del 60 per cento. Bastano questi quattro numeri per confermare, come ormai stanno dicendo moltissimi esperti di programmazione sanitaria, che il problema del Ssn non è l’allungamento delle liste d’attesa in sé, piuttosto l’assenza di una seria riforma del Servizio che, a fronte di risorse economiche inadeguate, sappia mettere davvero al centro la cura dei pazienti, specialmente quelli cronici, prendendoli in carico, evitando di lasciare i cittadini in balia di medici di base troppo deboli e poco attrezzati per offrire una risposa differente dall’ «eccole l’impegnativa per una visita specialistica». E tutte le declinazioni manifeste della iperprescrizione di visite mediche e diagnostiche.
Dicono i dati Agenas che tra il 2019 e il 2023 le prescrizioni delle prime visite sono aumentate del 31%, con punte del 268% in Calabria, del 145% in Alto Adige, più 115% in Emilia Romagna, seguita dal Veneto, così come sono cresciuti del 38% gli esami diagnostici (per esempio la risonanza magnetica), con ancora la Calabria che registra un boom di prescrizioni: più 263%. Seguono l’Alto Adige, l’Abruzzo, la Sardegna e il Lazio che triplicano il volume di ricette rosse prescritte. Eppure, mentre le visite prescritte aumentano, quelle erogate si riducono del 10 per cento: maglia nera alla Sardegna (meno 35%), segue l’Alto Adige (meno 31%), la Valle d’Aosta e la Basilicata, con sole due Regioni che migliorano la performance rispetto a quattro anni fa (Lombardia e Trentino, più 2%).
Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, nella sua audizione al Senato sul Dl 73/2024 Liste d’attesa, al primo punto dice che l’urgenza è quella di affrontare il problema dei «tempi di attesa, che aumentano a causa dello squilibrio tra l’offerta e la domanda di prestazioni sanitarie, di cui non tutte soddisfano reali bisogni di salute. Una quota di esami diagnostici e visite specialistiche è inappropriata: la loro esecuzione non apporta alcun beneficio in termini di salute e contribuisce ad “ingolfare” il sistema, lasciando indietro pazienti più gravi». E aggiunge: «Le misure previste dal Dl inseguono la domanda, aumentando l’offerta. Una strategia perdente: come dimostrano numerosi studi, infatti, una volta esaurito il cosiddetto effetto spugna nel breve periodo, l’incremento dell’offerta induce sempre un ulteriore aumento della domanda. In tal senso, è indispensabile definire criteri di appropriatezza di esami e visite specialistiche e un piano di formazione sui professionisti e d’informazione sui pazienti, al fine di arginare la domanda inappropriata di prestazioni». Cartabellotta, sostanzialmente, conferma quello che Mantoan fotografa con i dati. Ed è esattamente quello che sostiene Francesco Longo del Cergas Bocconi: «I dati ufficiali ci mostrano come i consumi di prestazioni sanitarie in Italia siano randomici. Ad esempio, nell’attività diagnostica gli emiliani consumano il doppio dei lombardi, mentre questi ultimi consumano il doppio di prime visite rispetto agli emiliani. E non vi è una ragione precisa: la richiesta è puramente casuale. Mentre è un dato di fatto che molti, troppi malati cronici restano tagliati fuori dalle cure e stritolati dalle liste d’attesa. È su di loro che dovrebbero concentrarsi gli sforzi di cura del Ssn».
Senza considerare che le metriche di calcolo delle già lunghissime liste d’attesa, non considerano un 10 per cento di popolazione che, a fronte di una malattia, rinuncia a curarsi – spesso proprio per motivi economici – e che il 50 per cento delle visite mediche avviene privatamente, così come il 30 per cento degli esami diagnostici, mentre è in costante aumento il volume di coloro che ricorre a interventi chirurgici in regime di sanità privata. Dice l’Istat che le lunghe liste di attesa sono diventate la principale causa di rinuncia alle cure in Italia, con il 4,5% della popolazione che nel 2023 non ha potuto effettuare visite ed esami per questo motivo, superando la quota di chi rinuncia per ragioni economiche (4,2%).
Il privato accreditato ha colpe proprie, perché «punta a crescere e, non potendo farlo basandosi sui rimborsi del Ssn, lo fa spingendo sui servizi a pagamento», spiega Longo, indicando – fra i servizi offerti dalle cliniche – le prestazioni a più alto costo, come gli interventi chirurgici. «Ovviamente questo crea ancora più disuguaglianze perché è ad appannaggio di chi è assicurato o dei ricchi», conclude il professore che invita a ridisegnare il sistema a favore di una maggiore equità.
Una bella speranza, se si considera che la spesa sanitaria a carico dei cittadini (out-of-pocket) ha raggiunto i 41,503 miliardi di euro. «Una cifra che sicuramente sarebbe più elevata se si considerasse il volume di quegli italiani che ricorrerebbero alle cure private, se avessero i soldi. Invece, semplicemente, vi rinunciano», spiega Cartabellotta, che aggiunge: «Va segnalato che la spesa privata include anche 4,6 miliardi intermediati da fondi sanitari e assicurazioni. E i fondi sanitari integrativi aumentano la spesa privata totale, senza ridurre quella a carico dei cittadini per due ragioni. Prima: almeno il 30% dei premi versati non genera servizi per gli iscritti perché viene eroso da costi amministrativi, fondo di garanzia (o oneri di ri-assicurazione) e utili delle compagnie assicurative. Seconda: la defiscalizzazione dei fondi sanitari sposta risorse pubbliche verso l’intermediazione assicurativo-finanziaria e la sanità privata, alimentando una privatizzazione strisciante».
Poi, per tornare al Dl Liste d’attesa, va detto che quella piccola riforma, per essere attuata, avrebbe bisogno di almeno sette decreti attuativi e, per quattro di questi, i tempi non sono neppure stati definiti. Inoltre la riforma è a costo zero, se non per la creazione di un Organismo di verifica e controllo sull’assistenza sanitaria, che costa 2,65 milioni di euro, e difficilmente potrà imporsi su una materia di competenza regionale. Il decreto prevede di ridurre le liste d’attesa incentivando il personale medico a lavorare più ore, «ma il carico di lavoro del personale sanitario è già inaccettabile», sostiene Cartabellotta. L’unica nota positiva va alla creazione di un unica Piattaforma nazionale per le liste d’attesa, un obiettivo salutato favorevolmente anche da Mantoan, perché risolverebbe il problema dell’eterogeneità dei dati. Tuttavia la sua realizzazione, da tempo nell’agenda di innumerevoli decreti pregressi e mai attuati, rischia di essere un miraggio, vista la competenza regionale della materia sanitaria.
L’unica utile riforma del Ssn che risponde al bisogno di cura dei cittadini, stava all’interno del Pnrr e prevedeva la creazione di un sistema sanitario di presa in carico territoriale del malato. Un progetto in profondo ritardo e ridimensionato, «con un impatto negativo sul modello della medicina territoriale, essenziale per offrire cure tempestive e appropriate ai pazienti direttamente nel loro contesto di vita», conferma Cartabellotta, che continua: «Sebbene i ritardi attuali non siano particolarmente critici, l’implementazione delle misure previste dal Pnrr è ostacolata da significative differenze regionali. Questo è evidente nel raggiungimento degli obiettivi sull’Assistenza domiciliare integrata (Adi) per gli over 65 anni, dove le Regioni del Mezzogiorno partono da una posizione di svantaggio rispetto al Nord. Ad esempio, nel 2023 il target nazionale di pazienti assistiti in Adi è stato formalmente raggiunto, ma questo dato nasconde enormi disparità regionali. Alcune Regioni come la Provincia Autonoma di Trento, l’Umbria, la Puglia e la Toscana hanno superato il target di oltre il 100%, mentre altre come la Sardegna, la Campania e soprattutto la Sicilia sono molto indietro. La medicina territoriale è progettata per assicurare che i pazienti ricevano cure appropriate e tempestive secondo il principio di prossimità, riducendo così la pressione sugli ospedali e migliorando la qualità della vita dei cittadini. Tuttavia, senza un’adeguata implementazione delle misure previste dal Pnrr, rischiamo di perdere questa grande opportunità».
Molte delle infrastrutture previste per potenziare la medicina territoriale sono ancora in fase di progettazione o costruzione mentre altre, inizialmente previste nel Pnrr e poi espunte, verosimilmente vedranno la luce solo dopo giugno del 2026. E queste strutture non possono funzionare senza un adeguato numero di medici, infermieri e altri operatori sanitari. Conclude Cartabellotta: «Soprattutto la carenza di infermieri è già critica, aggravata dalla scarsa attrattività della professione a causa delle basse retribuzioni. Pertanto la riforma dell’assistenza territoriale richiede una revisione delle politiche per il personale e un adeguato investimento nelle risorse umane».