Due lavori scientifici approfondiscono i fattori che aumentano il rischio di sintomi che persistono per 12 settimane dopo l’infezione, una condizione che è divenuta sempre meno comune man mano che si sono sviluppate varianti diverse rispetto a quelle riscontrate nel corso della pandemia
Mentre l’Italia è alle prese con una recrudescenza estiva delle infezioni da Covid-19, la letteratura scientifica continua a far luce sui vari aspetti, spesso misteriosi, del virus con cui ormai conviviamo. Fin dall’inizio della pandemia di coronavirus, sono stati segnalati ad esempio casi di sintomi persistenti a seguito del contagio e della negativizzazione, definiti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come tali se presenti 12 settimane dopo l’infezione. In un recente studio pubblicato sul Journal of Infection, gli scienziati guidati dall’Università di Medicina di Halle hanno valutato le informazioni di 109.707 partecipanti alla coorte nazionale tedesca (NAKO Gesundheitsstudie) sul loro stato di salute autodichiarato rispetto ai sintomi post-infezione. L’indagine si è svolta nell’autunno del 2022, in retrospettiva della pandemia.
Rischio di condizioni post-COVID-19 più basso per la variante Omicron
Gli scienziati hanno classificato le varianti virali responsabili di una determinata infezione in base ai periodi di dominanza nei dati di sorveglianza nazionale in Germania. Le infezioni fino a dicembre 2020 sono state classificate come Wildtype, tra gennaio e giugno 2021 come variante Alpha, tra luglio e dicembre 2021 come variante Delta e da gennaio 2022 come variante Omicron. “Come indica la nostra analisi, la variante virale ha un impatto sul rischio di condizioni post-covid-19. Il rischio sembra diminuire con le nuove varianti virali. Un’infezione da Omicron è stata sostanzialmente meno frequentemente associata a condizioni post-covid-19 rispetto a varianti virali precedenti”, afferma il professor Dr. Rafael Mikolajczyk, direttore dell’Istituto di epidemiologia medica, biometria e informatica dell’Università di Medicina di Halle.
Minor rischio di condizione post-covid-19 dopo la quarta vaccinazione e in caso di infezioni ripetute se la prima infezione non è stata seguita da condizione post-covid-19
“Abbiamo riscontrato una differenza anche in caso di infezioni ripetute da coronavirus. Coloro che non hanno sviluppato una condizione post-covid-19 dopo un’infezione e sono stati nuovamente infettati avevano un rischio inferiore di contrarre una condizione post-covid-19 rispetto alle persone che erano state infettate per la prima volta”, aggiunge Mikolajczyk. L’analisi mostra anche che la quarta vaccinazione riduce il rischio di condizioni post-covid-19. “I nostri risultati sono in linea con il fatto che l’incidenza della condizione post-covid-19, come osservato lo scorso inverno, sta diminuendo sostanzialmente. Le informazioni dettagliate della coorte nazionale tedesca prima e dopo la pandemia, nonché dalla ricerca in corso nel gruppo, costituisce una base preziosa per studi futuri sulle rimanenti domande di ricerca relative a Covid-19”, conclude.
Un secondo studio dei National Institutes of Health Usa, utilizzando i dati sanitari di quasi 213.000 americani che hanno subito reinfezioni, ha messo inoltre in luce che le infezioni gravi del virus che causa il COVID-19 tendono a prefigurare una gravità simile in caso di re-infezione. Inoltre, gli scienziati hanno scoperto che è più probabile che il long Covid si verifichi dopo una prima infezione, rispetto a una reinfezione, a prescindere dalla variante con cui ci si infetta. Lo studio, finanziato dall’iniziativa Researching COVID to Enhance Recovery (RECOVER(link is external)) del National Institutes of Health (NIH), è pubblicato su Communications Medicine. I ricercatori hanno anche scoperto che livelli più bassi di albumina, una proteina prodotta dal fegato, possono indicare un rischio maggiore di reinfezione: un elemento che potrebbe portare a considerare un livello inferiore di albumina come possibile indicatore di rischio di reinfezione.
B.D.C.