A fine anno scade un pacchetto previdenziale di uscite anticipate da oltre seicento milioni. Conferma difficile E il governo potrebbe essere costretto nuovamente a intaccare l’adeguamento all’inflazione degli assegni
Ci sono foto che raccontano molto. Quella di una settimana fa, all’indomani del voto francese, dello stato maggiore della Lega radunato per festeggiare il neonato gruppo europeo dei Patrioti. Al tavolo ministri e sottosegretari. E il leader Matteo Salvini. Parlano di obiettivi politici: «Aumento di stipendi, autonomia e premierato, sicurezza e immigrazione», fanno sapere. Tra questi,«la riforma delle pensioni». Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia e vicepresidente leghista, ascolta. Perplesso, nello scatto si porta una mano alla bocca. Sa già come finirà. La riforma delle pensioni non esiste. Anzi, il pacchetto da 630 milioni di misure che scade a dicembre rischia di non essere riconfermato.
Dentro: Quota 103, Ape sociale, Opzione donna (già quasi cancellata), l’aumento delle pensioni minime. Almeno due targate politicamente: Quota 103 cara alla Lega, le minime a Forza Italia. Se non fosse per quella reiterata promessa elettorale di abolire la legge Fornero, oggi Salvini (ma anche Giorgetti) dormirebbero sonni più tranquilli. E invece qualcosa bisogna pur dare. «Nell’arco della legislatura lo faremo», ripete Salvini. Ma ormai tutti hanno capito che la stagione delle Quote sta per finire. L’hanno capito quando Quota 103 è uscita l’anno scorsodal cilindro di Giorgetti con il ricalcolo contributivo dell’assegno. Leggi: penalizzazione. L’hanno capito quando Quota 41 viene posticipata di anno in anno.
La realtà dei numeri parla. E dice che la manovra di ottobre è già molto complicata di suo. Con un Paese in procedura per deficit eccessivo e alle prese con la correzione dei conti per il nuovo Patto di stabilità, già sarà un miracolo se spunteranno 15 miliardi per coprire il doppio taglio di cuneo e Irpef. Di certo le pensioni non sono una priorità. Lo dimostrail fatto che quest’anno il tavolo previdenza non è mai stato convocato dalla ministra del Lavoro Marina Calderone. Cosa dovrebbe dire? I sindacati hanno fiutato che si va allo scontro d’autunno. Temono poi che l’esecutivo faccia cassa sulle pensioni per il terzo anno consecutivo.
A gennaio torna un sistema di indicizzazione all’inflazione più favorevole (quello Prodi poi ripreso da Draghi). Difficile che il governo lo faccia passare, anche se il caro prezzi da restituire – quello di quest’anno: la rivalutazione si muove sempre con un anno di ritardo – è molto più basso dell’ultimo biennio, forse non arriverà all’1,5%. Claudio Durigon, sottosegretario leghista al Lavoro, lo dice in chiaro: «Non è giusto dare la stessa inflazione a tutti: meno ai redditi alti, più a quelli bassi». E poi quell’idea di flessibilità non più in uscita: «Studiamo incentivi a restare per alcune professioni e mansioni». Il pensiero è a medici e infermieri. Ma non solo.
Ecco quindi che il partito del fuori prima perché «bastano 41 anni di lavoro», diventa il partito del tutti dentro. La stretta meloniana sulle pensioni d’altro canto dà già i suoi frutti. L’anno scorso le nuove pensioni sono scese di 40 mila. L’anno prima di 27 mila. La spesa sul Pil sarà del 15,4% l’anno prossimo, il picco al 17% nel 2040, con il pensionamento dei baby boomers. Poi in discesa. Solo il comparto leghista delle quote – Quota 100, Quota 102, Quota 103 – l’anno scorso è costato 5 miliardi su un totale di 304 miliardi di spesa previdenziale (21 solo di indicizzazione). Giorgetti avrà spiegato questo al tavolo. La Francia insegna. Chiunque andrà al governo farà fatica a mantenere la promessa di cancellare la riforma delle pensioni di Macron (uscita a 64 anni anziché 62, da noi è 67 tendente a 70). Una riforma, in campo previdenziale, è quasi per sempre. Con buona pace di Melenchon, Le Pen e anche Salvini.