Il voto finale ottenuto ieri alla Camera dal disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata è un ovvio successo politico per la Lega, che può sbandierare la riforma come prova della sua capacità di incidere sull’azione del Governo. Ma per passare ai fatti, cioè al primo trasferimento effettivo di competenze a una Regione, la strada è ancora parecchio lunga. E tutt’altro che tracciata. Con la legge sull’autonomia in Gazzetta Ufficiale, per intendersi, nessun presidente di Regione potrà alzare il telefono e chiedere a Palazzo Chigi di avviare il negoziato sulle competenze aggiuntive da traslocare sul proprio territorio, in particolare per il nucleo delle funzioni più importanti che intrecciano i «diritti civili e sociali».
Per tutte queste materie, spiega infatti la legge Calderoli all’articolo 1, comma 2, «l’attribuzione di funzioni… è consentita subordinatamente alla determinazione dei Livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, ivi compresi quelli relativi alle funzioni fondamentali degli enti locali». Prima di questo passaggio preliminare resta congelata qualsiasi ipotesi di trasferimento alle Regioni di competenze aggiuntive in materie come l’istruzione, la tutela della salute, la sicurezza sul lavoro o i trasporti, ma anche la ricerca scientifica, l’alimentazione, l’ordinamento sportivo, il governo del territorio, porti e aeroporti, le grandi reti di trasporto e navigazione, l’ordinamento della comunicazione, l’energia e i beni culturali e ambientali.
È sempre la legge Calderoli, all’articolo 3, comma 3, a elencare le 14 materie vincolate dai Livelli essenziali delle prestazioni. Teoricamente restano fuori da questo vincolo preventivo settori come i Rapporti internazionali e con l’Unione europea, il commercio con l’estero o il «coordinamento della finanza pubblica». Ma non è chiaro che cosa possano fare in concreto le Regioni su questi terreni. E nemmeno è ipotizzabile quale Governo voglia o possa cedere spazi sulla gestione del bilancio della Pa.
Per partire davvero, insomma, servono i Livelli essenziali delle prestazioni, per i quali il Governo si è dato due anni di tempo. Occorre cioè che lo Stato misuri e decida qual è la misura dei servizi che va garantita in ogni territorio, da Domodossola a Reggio Calabria, e individui gli strumenti per garantirne il finanziamento integrale nei (molti) casi in cui le risorse proprie delle Regioni non dovessero bastare. Non solo: con una delle tante clausole chieste in particolare da FdI e accettate dalla Lega per non rischiare di interrompere il cammino della riforma, prima di trasferire una funzione a una Regione sarà indispensabile finanziarne i livelli essenziali anche per tutte le altre. E qui, com’è evidente, iniziano i problemi.
Perché non è semplice decidere a priori qual è la “quantità” di asili nido, aule, palestre o posti letto sufficiente per considerare attuate le tutele previste dalla Costituzione (articolo 117) per i diritti civili e sociali dei cittadini; una volta stabiliti, non è facile realizzare questi livelli minimi, come dimostra il caso della sanità dove i «Livelli essenziali dell’assistenza» (Lea) sono disciplinati da sette anni (Dpcm del 12 gennaio 2017) ma fin qui sono serviti solo a misurare in termini numerici le distanze enormi fra i servizi sanitari del Centro-Nord e quelli del Sud, dove si arriva a raggiungere anche punteggi Lea dimezzati rispetto alle realtà migliori. E soprattutto non è banale finanziarli, in particolare in un Paese che dopo essere entrato ora in una nuova procedura per deficit eccessivo sarà impegnato nei prossimi mesi in uno sforzo imponente solo per confermare le misure fiscali e contributive in vigore quest’anno senza aumentare ulteriormente il debito pubblico.
Il grado di questa difficoltà è reso piuttosto evidente dal testo della legge appena approvata in via definitiva. Che sottolinea come il tutto debba avvenire «coerentemente con gli obiettivi programmatici di finanza pubblica», anche perché «l’attuazione della presente legge e di ciascuna intesa non devono derivare nuovi o maggiori oneri» per il bilancio della Pa (articolo 9, comma 1). I Lep, insomma, non giustificherebbero maggior deficit, e andrebbero coperti con tagli di altre spese o aumenti di entrate.
Ma quanto potrebbero costare? Vista la complessità del tema, nessuno fin qui si è avventurato in cifre ufficiali. Tanto meno lo ha fatto la commissione tecnica guidata da Sabino Cassese, che ha effettuato una ricognizione giuridica dei Lep esistenti arrivando alla conclusione che la nozione stessa di Lep come «obblighi di dare, di fare e di astenersi che riguardano i pubblici poteri impatta sui conti pubblici, assumendo necessariamente una dimensione finanziaria, di sicura rilevanza» (pagina 28 della relazione).
Nulla, insomma, è destinato ad accadere a breve. Tranne l’ennesimo cortocircuito per cui la Lega, nel 2001 fiera avversaria della riforma costituzionale allora bollata come una «truffa», oggi ne celebra l’attuazione con la legge Calderoli; mentre la sinistra, autrice del nuovo Titolo V che ha introdotto l’autonomia differenziata, denuncia in Aula e nelle piazze lo «Spaccaitalia» guidata dal Pd di Elly Schlein, fino all’ottobre 2022 vicepresidente di quella Regione Emilia-Romagna che ha chiesto sia al Governo Conte-2 sia all’Esecutivo Draghi l’attuazione dell’autonomia con legge quadro. Ma questa è la politica, o quel che ne resta.