In altre parole, l’importo delle pensioni dovrebbe assottigliarsi rispetto a quello attuale, per effetto di un meccanismo di penalizzazione. Che salirebbe in maniera direttamente proporzionale al ridursi dell’età di uscita (o della contribuzione). Il tutto, di fatto, sulla falsariga di alcune delle misure adottate dal governo con l’ultima manovra. Che ha rinnovato Quota 103 per quest’anno ma vincolandola al ricalcolo contributivo dell’assegno.
L’Ufficio parlamentare di bilancio è giunto a questa conclusione dopo aver fotografato con attenzione la correlazione negli ultimi dieci anni tra pensionamenti e attivazioni nette di contratti a tempo determinato, quella tra le uscite verso la pensione e le trasformazioni contrattuali a tempo indeterminato e la «coevoluzione di attivazioni nette a tempo determinato e trasformazioni a tempo indeterminato». Da questa analisi è emerso che nell’ultimo decennio ogni cessazione di un lavoratore per quiescenza «è stata associata a un incremento 0,7 nuovi occupati a tempo determinato e alla trasformazione di 1,7 contratti da tempo determinato a tempo indeterminato». L’effetto netto sullo stock degli occupati è risultato quindi positivo, ma limitato e ottenuto grazie a contratti a termine. Allo stesso tempo, c’è stata anche una ricomposizione interna agli occupati, verso il tempo indeterminato. Secondo l’Upb, una possibile interpretazione di questo fenomeno è che «al forte aumento dei contratti a termine e delle trasformazioni a tempo indeterminato, che è in corso da diversi anni e ha coinvolto in maniera significativa i giovani, abbiano contribuito anche le uscite per pensionamento».
Non a caso la stessa presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, Lilia Cavallari, ha evidenziato che «una maggiore flessibilità nei requisiti pensionistici potrebbe facilitare il turnover tra generazioni», che però «per limitare l’impatto sui conti pubblici e assicurare equità intergenerazionale dovrebbe accompagnarsi all’adeguamento degli assegni».