Le «scelte attente soprattutto dal lato della spesa» sono l’ingrediente centrale del «piano credibile» per realizzare il «graduale e costante miglioramento dei conti pubblici» indicato venerdì da Fabio Panetta. Le tabelle della ricca Relazione che come ogni anno affiancano le Considerazioni finali del Governatore di Bankitalia spiegano il perché: inquadrando un problema che è noto, ma che i dati del confronto internazionale riassunto da Via Nazionale inquadrano con parecchia efficacia.
La questione è sempre quella della spesa troppo elevata e soprattutto troppo rigida indicata solo pochi giorni fa dalla Ragioneria generale nell’audizione sulla riforma della governance economica comunitaria (Sole 24 Ore di venerdì); riforma che assume proprio la spesa primaria netta come perno a cui agganciare i programmi di riduzione di deficit e debito. Idea nobile, ma parecchio critica per un Paese in cui più del 90% delle uscite correnti è cristallizzato nel proprio carattere «inderogabile» come spiegato dal ministero dell’Economia.
All’appuntamento con le nuove regole europee, l’Italia si presenta con una geografia delle uscite pubbliche sbilanciata sul lato della previdenza. Al punto che pur occupando i gradini più alti nella graduatoria continentale per volume complessivo di spesa, Roma finisce in coda quando si guarda a sanità e scuola: voci piuttosto strategiche in un Paese che invecchia a ritmi più intensi della media, e che ha bisogno di nuove politiche famigliari per invertire la tendenza.
I numeri non ammettono repliche. Unica insieme alla Francia, titolare storica del primato nel peso dell’amministrazione, a registrare una spesa pubblica complessiva superiore al 50% del Pil, l’Italia dedica una cifra pari al 21,9% del prodotto alla «protezione sociale», il capitolo dominato per oltre il 70% dalle pensioni e alimentato poi da sussidi di disoccupazione, aiuti per risarcire la perdita di reddito a seguito di malattia o infortunio e le indennità a favore di famiglie con figli a carico. Nella media dell’area euro, lo stesso filone si ferma due punti sotto, al 19,9% del prodotto.
L’orizzonte però si ribalta quando si guarda, come detto, a sanità e scuola. Nel 2022, ultimo anno di cui finora sono disponibili i dati di scomposizione delle uscite per categoria funzionale (Cofog) che permettono il confronto internazionale, la spesa sanitaria italiana era al 6,9% del Pil, e si confrontava con il 7,7% medio dell’Eurozona, l’8,3% della Germania e l’8,8% della Francia. Nel frattempo una crescita del prodotto nominale superiore a quella del fondo sanitario ha assottigliato ulteriormente la quota di Pil destinata alla salute, che quest’anno è scesa al 6,27% e quindi ai minimi dal 2007.
Il passare del tempo, insomma, allarga questa sorta di spread sanitario con gli altri Paesi, come del resto è accaduto costantemente fra 2008 e 2019 quando il rapporto fra la spesa italiana per la salute e il Pil è rimasto sostanzialmente fermo mentre in Francia e Germania è cresciuto di 0,7 punti (cioè del 9-10%).
Sulla scuola il quadro è analogo. L’impegno pubblico nell’istruzione italiana vale il 4,6% del prodotto interno lordo mentre il resto dell’Eurozona arriva al 5,2%, in un ventaglio dei grandi compreso fra il 4,8% della Germania (dove però il Pil pro capite è decisamente superiore al nostro) e il 5,9% della Francia.
Con un nuovo “Patto” Ue che aggancia i propri vincoli a un limite di spesa primaria, destinato a prendere forma fin dalle prossime settimane, la complicata opera di ristrutturazione del bilancio pubblico non può che partire da qui. Il percorso in realtà è già stato avviato, perché anche a costo di farsi dei nemici nel governo, nella maggioranza e nei loro stessi partiti il ministro dell’Economia e la premier nelle ultime due manovre hanno chiuso quasi integralmente le vie per i pensionamenti anticipati e hanno lavorato parecchio di forbice sulla spesa previdenziale tagliando progressivamente le indicizzazioni degli assegni superiori a cinque volte il minimo (circa 2.100 euro lordi). «Ancora ieri le agenzie ci hanno confermato il rating e quindi vuol dire che stiamo lavorando bene, in mezzo a tante difficoltà e a un mondo che ha delle turbolenze di carattere politico ed economico non banali», ha rivendicato Giancarlo Giorgetti riferendosi alla decisione di venerdì sera di Moody’s di lasciare invariato il giudizio Baa3 con outlook stabile assegnato al debito italiano. Ma il lavoro è solo all’inizio, anche perché le nuove regole fiscali Ue andranno incrociate con le misure che il Governo vorrà introdurre o rifinanziare, a partire dal cuneo fiscale e dai tagli Irpef.
Sugli investimenti, invece, l’agenda pare più avanzata, dopo lo stop ai crediti edilizi (153 miliardi di deficit 2020-23 da Superbonus, 175 con il bonus Facciate) che per Bankitalia hanno portato la spesa pubblica per gli investimenti delle famiglie «a un livello 55 volte superiore a quello medio del decennio precedente la pandemia». Ora tocca al Pnrr; che però secondo la stessa Moody’s sarà «probabilmente insufficiente a incrementare materialmente il potenziale di crescita dell’Italia e a mettere il debito su una traiettoria discendente più forte e sostenuta».