La vita delle donne e più in particolare delle mamme in Italia è costellata di difficoltà. Ostacoli nell’inserimento nel mondo lavorativo, differenze retributive ed elevato divario di carichi di cura tra uomini e donne, precarietà contrattuale. E poi, ancora, un sistema di servizi che non supporta pienamente le famiglie nella conciliazione vita-lavoro. Queste criticità fanno delle donne e delle mamme in particolare, ancora oggi, delle vere equilibriste.
A discapito di tutti rinunciare alle competenze, al talento e alle energie delle donne e delle mamme, significa non investire nello sviluppo del Paese. Ma è anche una questione di diritti: le scelte professionali delle donne che decidono di diventare madri incidono sul loro futuro non solo professionale ma anche economico. Sulla loro autonomia ed indipendenza, sulle loro opportunità future e, soprattutto, sulle loro future pensioni.
In Italia il tasso di occupazione femminile (età 15-64 anni) è stato del 52,5% nel 2023, un valore più basso della media dell’Unione Europea (65,8%) di ben 13 punti percentuali. La differenza tra il tasso di occupazione degli uomini e delle donne nel nostro Paese, nello stesso anno, era di 17,9 punti percentuali, ben più marcata rispetto alle differenze osservate a livello europeo pari a 9,4 punti percentuali. Una spia delle difficoltà che le madri affrontano nel conciliare impegni familiari e lavorativi è rappresentata dal numero di donne occupate di età compresa tra i 25 e i 54 anni. A fronte di un tasso di occupazione femminile del 63,8%, le donne senza figli che lavorano raggiungono il 68,7%, mentre solo poco più della metà di quelle con due o più figli minori ha un impiego (57,8%).
Guardando ai dati delle dimissioni volontarie post genitorialità è evidente come la nascita di un figlio influisca sulla disparità di genere nel mondo del lavoro. A dimettersi sono principalmente le madri al primo figlio ed entro il suo primo anno di vita. Nel corso del 2022, infatti, sono state effettuate complessivamente 61.391 convalide di dimissioni volontarie per genitori di figli in età 0-3 in tutto il territorio nazionale, in crescita del 17,1% rispetto all’anno precedente. Il 72,8% del totale ( pari a 44.699) riguarda donne, mentre il 27,2% riguarda uomini (pari a16.692), con una crescita maggiore di quelle femminili rispetto all’anno precedente. Una lavoratrice su cinque rinuncia al lavoro dopo la maternità. Il 72,8% delle dimissioni dei neogenitori è al femminile. Un dato che conferma una tendenza già presente negli scorsi anni e che vede delle ripercussioni sulla carriera femminile a causa dell’inconciliabilità tra carichi di cura e vita professionale.
Questa considerazione è assolutamente dirimente per la lettura dei gap di genere o per le valutazioni che implicano una comparazione tra madri e padri, donne e uomini. Questi dati, resi dalle convalide delle dimissioni volontarie, non sono, tuttavia, adatti per comparare il fenomeno delle dimissioni in generale di uomini e donne con figli piccoli, perché mettono in rapporto un universo delle madri e solo una parte dei padri “ facenti funzione”. Dai dati emerge inoltre che in Italia, mentre il lavoro a tempo pieno è più comune tra gli uomini rispetto alle donne, accade l’opposto per il lavoro part-time. In generale nel nostro Paese solo il 6,6% degli uomini che lavora, lo fa a tempo parziale, rispetto al 31,3% delle lavoratrici, che per la metà dei casi (15,4%) subisce un part-time involontario.
Le donne continuano ad allontanarsi dal mercato del lavoro, meglio ad esserne allontanate. Basta fare riferimento all’indennità di disoccupazione Naspi che spetta alle neo mamme se presentano dimissioni solamente durante il periodo di tutela. Ovvero il periodo in cui, proprio per la maternità, non possono essere licenziate. Tale periodo comprende tutta la gestazione e il primo anno di vita del figlio. Per avere diritto alla Naspi ,che ricordiamo non spetta, in ogni caso, ai lavoratori del pubblico impiego con contratto a tempo indeterminato e, quindi, neanche alla neo mamma che si dimette da un rapporto a tempo indeterminato nel pubblico impiego, in caso di dimissioni la neo mamma deve lasciare il lavoro entro il primo anno di vita del figlio.
Le differenze di genere sul mercato del lavoro e la irregolarità dei rapporti di lavoro si riflettono anche sulle pensioni, che per le donne sono più basse. Aumenta, infatti il divario tra gli importi delle pensioni degli uomini e quelle delle donne. Le pensionate italiane percepiscono infatti un assegno medio mensile di 1.242 euro, 472 euro in meno rispetto ai 1.714 euro incassati mediamente dagli uomini. Nonostante siano numericamente superiori (8,3 milioni contro 7,8 milioni di uomini), alle pensionate sono spettati appena 141 miliardi a fronte dei 321 miliardi erogati complessivamente nel 2022, mentre gli uomini hanno percepito 180 miliardi circa. Non si tratta di condizioni relative alle pensioni anticipate poiché nel 2022, solo il 20% di loro ha beneficiato di pensioni anticipate, quelle in media più alte, rispetto al 50% degli uomini. In futuro la difficoltà di conciliare lavoro e vita privata, in particolare il carico familiare e i figli, ridurrà sempre di più la possibilità per le donne e per le madri di poter cumulare contributi idonei ad un trattamento previdenziale equo e necessario nella vecchiaia, che peraltro li vede, per l’età, sempre più longeve. E’ triste affermarlo nelle giornate che propongono la festa della mamma ma appare evidente che oggi la nascita di un bambino rappresenta nel nostro Paese uno dei principali fattori di impoverimento. Bisogna, se si vuole cambiare queste tristi prospettive, sanzionare ogni forma di discriminazione legata alla maternità, rendere obbligatorio il family audit e promuovere l’applicazione piena della legge sulla parità di retribuzione.
Il Sole 24 Ore sanita