In Italia, non esistono servizi garantiti di assistenza alla prima infanzia. Le poche strutture presenti sono spesso distribuite a macchia di leopardo lungo la penisola, sono troppo costose e inevitabilmente insufficienti a coprire tutte le richieste. Così, a occuparsi dei figli, sono le mamme, facendo un passo indietro dal lavoro. La motherhood penalty, la penalità dell’essere madri, caratterizza tristemente il nostro Paese, come emerge dallo studio internazionale comparato “Donne, lavoro e sfide demografiche. Modelli e strategie a sostegno dell’occupazione femminile e della genitorialità” realizzato da Fondazione Gi Group e Gi Group Holding in collaborazione con Valore D, con focus su Italia, Francia, Germania, Paesi Bassi, Spagna e Svezia.
L’Italia sconta il più basso tasso di occupazione per le donne tra i 25 e i 49 anni con almeno un figlio, pari al 62%, molto lontano dall’86% della Svezia. E non va meglio se si guarda al welfare per le famiglie: la Germania investe il 3,6% del proprio Pil tra trasferimenti economici e servizi, l’Italia appena l’1,2%, con un focus prioritario sui sussidi economici. Ma la performance peggiore si ha quando si parla di asili nido e scuole d’infanzia: l’Italia non garantisce istruzione e assistenza alla prima infanzia ed è per questo, con la Spagna, il Paese meno virtuoso tra quelli considerati. Detto in altre parole: siamo lo Stato con il «gap di non copertura» maggiore per il periodo che va dalla nascita dei figli all’inizio della scuola primaria. Nel 2022, infatti, solo il 31% delle madri lavoratrici è riuscita a usufruire degli asili nido. Per garantire, entro il 2030, posti negli asili nido al 45% dei bambini tra 0 e 2 anni, come previsto dall’Europa, dunque, bisogna cambiare passo. E farlo in fretta. Altrimenti, le madri continueranno a rivedere al ribasso la propria carriera.
«Oltre a garantire l’accesso gratuito ai servizi di cura per la prima infanzia, Paesi come Germania e Svezia assicurano congedi di almeno un anno dopo la nascita, retribuiti minimo all’80%. L’Italia fa molta fatica anche su questo fronte e aggiunge a queste mancanze il peso di altre distorsioni, come il gender pay gap» spiega Rossella Riccò, responsabile area studi e ricerche di Fondazione Gi Group. Il divario di genere nelle retribuzioni, infatti, fa sì che lo stipendio femminile, solitamente più leggero, sia anche il più sacrificabile. A questo si aggiunge la questione culturale: ancora oggi le donne si fanno carico del 70% del totale delle ore di lavoro non retribuito di assistenza e cura.
Il superamento della frattura tra maternità e occupazione, dunque, richiede sforzi congiunti, pubblici e privati. E le imprese possono fare molto per accelerare il cambiamento, con misure come l’estensione del congedo di paternità, lo smart-working, gli asili aziendali o il reskilling al rientro dalla maternità. «Queste politiche di supporto alla genitorialità sono più diffuse nelle grandi imprese, meno nelle Pmi, che spesso hanno meno risorse e talvolta sono più legate a una visione tradizionale dei ruoli – fa notare Barbara Falcomer, direttrice generale di Valore D. E aggiunge – C’è bisogno di scardinare cultura e sistema con politiche di incentivazione più forti al welfare e anche di agire sul piano legislativo per equiparare i congedi genitoriali».
Intervenire su maternità e lavoro, dunque, non è mai stato così urgente. «La crisi demografica che l’Italia sta vivendo ne è la dimostrazione così come il talent shortage che affigge moltissime aziende. Finché non capiremo che la motherhood penalty riguarda tutti noi, e non solo le madri, non riusciremo a chiudere il gap – afferma Chiara Violini, presidente di Fondazione Gi Group. E conclude – Sanare la frattura tra maternità e lavoro è una questione etica, economica e culturale. È, in definitiva, una questione di sostenibilità».
Il Sole 24 Ore