DI VALENTINA CONTE, Repubblica
Gli esami di riparazione per l’Italia cominciano il 19 giugno. Un mercoledì da segnare in rosso sul calendario della politica e dell’economia. Perché in quel giorno la Commissione europea presenterà il “pacchetto di primavera” che conterrà due notizie non da poco per il nostro Paese: la “traiettoria” di rientro dagli eccessi di spesa e il cartellino giallo per il super deficit, salito al 7,4% nel 2023, il più alto d’Europa.
L’apertura di una procedura per disavanzo eccessivo era scontata, per noi come per la Francia e altri Paesi. Ma il combinato disposto con il nuovo Patto di stabilità, approvato ieri dal Parlamento europeo, lega le mani al governo Meloni. La presumibile stretta da 13 miliardi all’anno per sette anni (lo 0,6% del Pil), avvistata dagli stessi tecnici del Tesoro e confermata dalle proiezioni della Corte dei Conti e dell’Ufficio parlamentare di bilancio, mette in soffitta non solo le bandierine elettorali della destra – dalla flat tax per tutti al quoziente famigliare, da Quota 41 agli asili nido gratis – ma anche tutte le politiche in vigore quest’anno e che scadono il 31 dicembre.
Lo stesso governo le cifra in 20 miliardi e le chiama “politiche invariate” nel Documento di economia e finanza appena approvato.Tra queste c’è il doppio taglio al cuneo contributivo e all’Irpef che da solo costa 15 miliardi e porta nelle tasche di 13,8 milioni di italiani circa 117 euro in più al mese. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti e il suo vice con delega al fisco Maurizio Leo garantiscono che nel 2025 ci saranno ancora. Nulla dicono su tutti gli altri bonus che rischiano di saltare: dal bonus mamme al taglio del canone Rai, dal mutuo per le giovani coppie a Quota 103, per finire con lacarta alimentare “Dedicata a te”.
L’Europa suona dunque la campanella per l’Italia. La ricreazione è finita, il Superbonus archiviato (così pare, dopo tre decreti firmati da Giorgetti), la crisi del gas alle spalle, l’inflazione affievolita, il Pnrr quasi nel pieno. Ecco dunque le nuove regole: il deficit deve rientrare al 3%, con un ritmo di dimagrimento di mezzo punto all’anno nella sua versione “strutturale”, cioè al netto delle misure una tantum e della componente legata alle fluttuazioni cicliche dell’economia. Di conseguenza anche il debito scende di un po’. Ancora di più – un punto in meno all’anno – dopo che il deficit tornerà al 3% e l’Italia uscirà dalla procedura per gli eccessi. Queste le regole per chi ha deficit e debiti alti come noi.
Ecco il doppio nodo: prima curare il deficit, poi il debito. A quel punto la chiave per valutare se l’Italia fa i compiti a casa diventa la spesa primaria al netto degli interessi pagati sul debito che nonpuò superare una certa soglia. La “traiettoria” che la Commissione consegnerà all’Italia il 19 giugno – un grafico con le curve delle variabili economiche – sarà per forza di cose “discendente”. E servirà al governo Meloni per scrivere il “Piano strutturale di bilancio a medio termine”, così si chiama.
Un Piano di rientro, di correzione dei conti in buona sostanza, di 4 anni estendibile a 7 anni in presenza di riforme e investimenti. Di sicuro l’Italia punterà ai 7 anni, per diluire i sacrifici. Questo pare di capire, anche dalle simulazioni dei tecnici. Per paradosso, se il governo Meloni decidesse di non toccare il Def, ora all’esame del Parlamento, l’Italia non avrebbe bisogno di sterzate. Ma quel Def ha un difetto di fondo: è congelato, un quadro solo “tendenziale”.
Si muove d’inerzia. Descrive ciò che succederebbe all’Italia se il governo Meloni non rinnovasse per il 2025 alcun tipo di bonus o sgravio, non mettesse soldi sui contratti pubblici, sulla sanità o sugli investimenti usciti dal Pnrr. Il ministro Giorgetti si è impegnato a presentare al Parlamento un quadro “programmatico” entro l’estate. Ma con il Piano Ue e l’impossibilità di fare deficit, ci sono solo tagli e tasse. E gli avanzi di bilancio.