Il nostro Paese non è pronto ad affrontare una nuova grande crisi sanitaria. Così rischiamo di piombare in una situazione peggiore di quella del 2020
Nell’animatissimo dibattito pubblico sui grandi mali della Sanità e sulla crisi agonica del nostro già glorioso Sistema Sanitario Nazionale occupa poco spazio – per non dire nessuno – la monumentale questione del come ci stiamo preparando alla prossima pandemia; e del se e, nel caso, in che misura, stiamo mettendo a frutto le dure lezioni imparate dagli errori commessi durante la pandemia Covid, che ha ucciso circa 7 milioni di persone ed è costato all’economia globale più di 12mila miliardi di dollari. Ad evocare i numeri di uno dei più grandi fallimenti politici e scientifici della nostra storia recente ci ha pensato l’altro ieri un allarmato e informato editoriale del Financial Times dal titolo “La prossima pandemia sta arrivando. Siamo pronti?”. Una sveglia al mondo intero (compreso il nostro piccolo, smemorato pezzo che sembra afflitto da sonnambulismo).
Nessun accordo
Nessuna spinta dal Pnrr
Spinti anche dall’allarme che arriva dalla comunità di ricerca globale sull’influenza aviaria che annuncia un mondo pericolosamente vicino ad una prossima pandemia con un virus mortale, “100 volte peggiore di Sars- Cov-2”, i mass media stanno dando spazio in queste ore alle polemiche di esperti e osservatori circa la posizione degli Stati Uniti per quanto riguarda la preparazione ad una futura emergenza. Rispetto alla quale, quella grande nazione si troverebbe in una situazione molto peggiore di quella di quattro anni fa. Come qui da noi, in Italia. Mal comune, non è mezzo gaudio nel cruciale ambito della salute collettiva. Il nuovo Annuario del Ssn relativo al 2022, appena presentato dal Ministero della Salute, ci racconta che l’Italia è tristemente impreparata ad affrontare una grande crisi sanitaria. Il confronto con il report di dieci anni fa è sconfortante se si guarda alla sanità territoriale e al sistema di emergenza pre-ospedaliero che si è rivelato un grave collo di bottiglia nella risposta della sanità pubblica durante la pandemia.
Il catalogo è questo, a voler ridurre all’osso i dati: meno ospedali, un territorio sempre più sguarnito di medici di famiglia, pediatri e medici di continuità assistenziale e un’assistenza territoriale pubblica in mezzo al guado con l’Assistenza domiciliare integrata su cui non si sono ancora viste le spinte promesse dal Pnrr. Non solo. Dopo il boom di posti letto per acuti del 2020, anno dell’incursione del flagello pandemico, le forbici si sono messe in azione, cancellando 30 mila letti. Mettendo a confronto lo stesso rapporto relativo al 2012, appare evidente la continuità delle politiche dei tagli al SSN adottate dai vari governi che si sono succediti lungo il decennio: 95 ospedali in meno, cioè da 1.091 (tra pubblici e privati) del 2012 a 996 nel 2022. In calo anche le strutture per l’assistenza specialistica ambulatoriale: erano 9.268 nel 2012 e sono scese a 9.085 dieci anni dopo. Personale ridotto, rispetto a 10 anni fa, anche se di recente si è registrata un’inversione di tendenza.
La strategia lontana
Siamo ben lontani, sembra di poter dire, dallo sviluppo di una strategia di preparazione alla pandemia a lungo termine, che punti alla resilienza del sistema sanitario e al miglioramento delle condizioni di salute della popolazione generale: tutti gli studi dimostrano che condizioni come il diabete, l’obesità e l’ipertensione influiscono – in presenza di una pandemia – ad aggravare il bilancio dei decessi. Senza dimenticare il danno aggiuntivo – nel nostro paese – della proliferazione di disinformazione e la sfiducia nella scienza e negli operatori sanitari. Cosa che può contribuire alla mancanza di rispetto delle misure di sanità pubblica che possono salvare vite umane e limitare i danni di una pandemia.
Il Riformista