Intervista all’immunologo e direttore scientifico di Humanitas
di Elena Dusi «Voglio continuare a vivere in un paese in cui una persona, se si ammala, debba preoccuparsi solo di guarire. Non di quanto costa la sua cura, o di cosa fare quando scade l’assicurazione». Alberto Mantovani è medico immunologo e da anni figura fra gli scienziati italiani più citati al mondo. È anche direttore scientifico di Humanitas: un centro di eccellenza della sanità privata a Rozzano, vicino Milano, oltre che un Irccs — Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico — riconosciuto dallo Stato.
Cosa l’ha spinta a firmare l’appello per salvare il Servizio sanitario nazionale?
«L’ultimo rapporto del Censis e dell’Aiop (l’Associazione degli ospedali privati) secondo cui l’Italia sta andando verso una salute per censo, in cui solo i ricchi riescono a curarsi nel migliore dei modi. Ci siamo scambiati dei pareri, fra colleghi dell’Accademia dei Lincei e di altre istituzioni, e ci siamo accorti di avere un sentire comune, pur non essendo tutti medici e non lavorando tutti all’interno di ospedali pubblici».
Lei ad esempio dirige un’istituzione privata. Perché si fa promotore di un’iniziativa a favore del sistema sanitario pubblico?
«Perché sono un cittadino di questo paese. Perché lavoro in un ospedale che svolge un servizio al pari degli altri ospedali statali, faccio ricerca con una rete di colleghi che lavorano negli ospedali pubblici.
Perché è appena nata la mia decima nipotina e non riesco a pensare che crescano in un sistema sanitario che cura le persone in base alla ricchezza».
La sua nipotina è stata ben assistita?
«È nata in un ospedale pubblico a Londra. Anche il sistema sanitario britannico ha problemi enormi, ma lei e la madre sono tornati a casa dopo due giorni, assistiti a domicilio da un’ostetrica. Con un prelievo di sangue ha già fatto lo screening per eventuali malattie genetiche rare metaboliche. Vorrei che tutti i miei nipoti continuino a vivere con un’assistenza così, senza diseguaglianze».
Lei insegna anche alla Humanitas University. Gli studenti di oggi sono meno orgogliosi del loro sistema sanitario rispetto al passato?
«Non sono di quelli che lodano sempre i tempi passati. Oggi gli studenti di medicina sono moltomeglio preparati di quando io ero studente. Forse però non riusciamo a trasmettere bene la componente vocazionale di questo mestiere. Ai miei tempi c’era la coda per entrare a chirurgia, oggi la coda si è trasferita a chirurgia estetica. Vivo con angoscia questa mancanza di attrattività da parte di alcuni settori che pure sono il cuore della nostra professione. Penso alla medicina d’urgenza, ma uguale importanza hanno tutte le professioni sanitarie e infermieristiche. Non sono solo i giovani italiani a lasciarle sguarnite, anche gli stranieri trovano poche ragioni di attrazione nell’Italia».
Nel vostro documento citate gli Stati Uniti come modello da cui tenersi alla larga.
«Di recente raccontavo a un collegaamericano che il nostro sistema sanitario garantisce un trattamento molto avanzato a base di anticorpi monoclonali ai pazienti che soffrono di emicrania grave. Lui mi guardava con gli occhi di fuori. Un altro mi citava la storia triste di un suo conoscente. Persi il lavoro e l’assicurazione sanitaria, ha dovuto interrompere la terapia contro l’artrite reumatoide. Si trattava di una cura che fa la differenza fra il restare immobili e il tornare a camminare e in Italia è offerta a chiunque ne abbia bisogno. Il nostro sistema sanitario, nonostante le difficoltà, fa miracoli. Non lo dico io, lo dicono i dati. I malati di cancro da noi hanno un’aspettativa di vita superiore alla media europea».
Se il ministro della Salute vi convocasse per discutere del vostro appello cosa gli chiedereste?
«Di permetterci di continuare a fare miracoli. Chiediamo più risorse, controllo sulla qualità clinica ed efficienza. Se getti più risorse in un sistema che spreca, infatti, non farai grandi passi avanti. C’è bisogno di meno burocrazia: come chi va in montagna, dobbiamo toglierci i sassi dagli zaini. E serve un uso più appropriato di esami e farmaci, a partire dagli antibiotici. È anche vitale sostenere molto di più la ricerca. Stanno arrivando terapie molto efficaci, come le Car-T contro i tumori e contro alcune malattie autoimmuni, che sono anche molto costose. Produrle in Italia, evitando di doverle comprare sempre e solo all’estero, le renderebbe più sostenibili».
Quali sono le nuvole grigie all’orizzonte che vi preoccupano?
«Le differenze di efficienza del sistema sanitario tra Nord e Sud e la scarsa adesione agli screening dei tumori, soprattutto nelle regioni meridionali. Ai programmi di prevenzione mammografici risponde solo il 40% delle donne al Sud e oltre il 70% in Lombardia.
Vediamo poi aumentare i bambini in sovrappeso e che non praticano sport. Un buon sistema sanitario non si occupa solo di curare le malattie, ma anche di prevenirle. E l’Italia oggi riesce a farlo molto meno. Questa è per noi una ragione d’angoscia, una delle principali che ci ha spinto a firmare l’appello per un sistema sanitario che è malato, ma non certo moribondo. E che ha tutte le possibilità di essere salvato».