Le Casse di previdenza private marcano la distanza dal concordato preventivo biennale (disciplinato dal decreto legislativo 13/2024), mettendo nero su bianco come «non produca alcun effetto» riguardo agli obblighi contributivi dei professionisti iscritti. E, così, si aggiunge un (nuovo) tassello al «puzzle» dei provvedimenti fiscali e contributivi che, nello scorrere degli anni, hanno visto la «levata di scudi» del comparto per le iniziative del legislatore in contrasto con i dettami della Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 7 del 11 gennaio 2017, ha riconosciuto la necessità di garantire l’indipendenza degli Enti. È di ieri la presa di posizione dei presidenti degli Istituti pensionistici e assistenziali riuniti nell’Adepp che, in una nota, hanno chiarito come la disposizione presente all’articolo 30 del provvedimento, «se applicata alle Casse, si rivelerebbe lesiva della loro autonomia gestionale, organizzativa e contabile», come sancito dal pronunciamento della Consulta di sette anni fa, scaturito dal ricorso presentato in merito all’imposizione della «spending review» (il «taglio» dal 5% al 15% dei consumi intermedi delle pubbliche amministrazioni per riversarne i proventi allo Stato deciso dal governo di Mario Monti con le leggi legge 135/2012 e 174/2013) dalla Cassa dottori commercialisti (Cdc).
Nessun effetto sulla contribuzione
Ed è proprio il suo numero uno, Stefano Distilli, a precisare a ItaliaOggi che «il tema dell’irrilevanza del concordato preventivo ai fini della determinazione della base imponibile su cui calcolare i contributi previdenziali obbligatori dovuti alle Casse è già stato affrontato e risolto, in occasione di un analogo provvedimento del 2003. Già allora, infatti, era stato chiarito che spetta ai singoli Enti adottare i provvedimenti necessari per assicurare l’equilibrio di bilancio, tra cui rientrano anche quelli sulla determinazione dell’entità della contribuzione. Principi, questi», argomenta, «contenuti sia nel decreto legislativo 509/94 (il primo sulla privatizzazione delle Casse, ndr) sia nella legge 335/95, che costituisce normativa speciale, e non può essere derogata, se non con espresse modifiche». Pertanto, dichiara Distilli, «per il calcolo della contribuzione dovuta, è necessario continuare a far riferimento al reddito prodotto. E non a quello oggetto di concordato fiscale». In passato vi sono stati altri episodi affini, su cui il settore ha espresso contrarietà: per esempio, la legge 25/2022 in cui fu convertito il cosiddetto «decreto sostegni» (41/2021) che stabiliva la «rottamazione» delle somme sotto i 5.000 euro iscritte a ruolo per un decennio (dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2010) per soggetti con redditi inferiori ai 30.000 euro. E, prima ancora, il «saldo e stralcio» incluso nella manovra economica per il 2019 (legge 145/2018).