«Alla carne di maiale in Italia viene riconosciuto un prezzo medio di 2,2 euro al chilo, ma a quella proveniente da allevamenti che ricadono nelle zone di sorveglianza per la peste suina vengono pagati solo 1,5 euro. Siamo al di sotto dei costi di produzione che sono di 1,9 euro al chilo». Di questa discriminazione l’onorevole Angelo Ciocca, europarlamentare della Lega, ha deciso di farne ben due interrogazioni alla Commissione europea: «La carne proveniente da questi allevamenti è super controllata – spiega – ma alcuni macelli fanno resistenza e, per essere ritirata, questa carne viene svalutata. Credo che ci siano gli estremi per un richiamo della Commissione a questi operatori; siamo di fronte a una distorsione del mercato».
Le associazioni degli agricoltori confermano: «Le attività suinicole – scrive in una nota Confagricoltura Piacenza – riferiscono di un’improvvisa decrescita del prezzo di vendita dei suini». Mentre per Luigi Scordamaglia, responsabile mercati e politiche comunitarie della Coldiretti, «nel momento in cui un allevamento si trova all’interno di un’area tecnicamente soggetta a restrizioni ma non soggetta ad abbattimento animali, il rischio di speculazione sul prezzo c’è. Nei macelli che esportano, per esempio, questa carne non la vogliono».
Il calo del prezzo al di sotto della soglia dei costi di produzione è solo l’ultimo dei lasciti del dilagare della peste suina in Italia. La malattia, che non si trasmette in nessun modo all’uomo, colpisce prevalentemente i cinghiali selvatici ma si trasmette ai suini domestici. E gli allevamenti che finiscono nelle zone soggette a sorveglianza nelle zone a rischio vanno incontro a una serie di restrizioni crescenti: dall’obbligo di macellare le carni solo in appositi macelli fino al divieto di esportazione extra-Ue. A più di due anni dalla comparsa del primo caso – era il 7 gennaio del 2022 – in Italia la peste suina, ricorda la Copagri, ha colpito oltre 1.500 cinghiali e quasi 14mila suini. Nel Pavese, dove la scorsa estate ha fatto la sua comparsa, le regole di prevenzione hanno portato all’abbattimento di 46mila maiali. I più preoccupanti, però, sono gli avvistamenti più recenti: carcasse di cinghiali malati trovate sull’Appennino parmense. A un soffio dal cuore della suinicultura italiana. Nel nostro Paese la filiera – dagli allevamenti, ai macelli, fino alle imprese produttrici di insaccati – vale oltre 10 miliardi di euro. Da quando è cominciata la peste suina, i salumi made in Italy hanno già perso mezzo miliardo di euro. Per questo anche le imprese sono preoccupate. Ma respingono le accuse di speculazione: «La carne proveniente dalle zone soggette a restrizioni – spiega Davide Calderone, direttore generale di Assica – è difficile da piazzare. Per i macelli trattare questi animali comporta costi ulteriori. Se un produttore di salumi acquista carni provenienti dalle zone di restrizione, non può più esportare extra-Ue. Senza contare che alcuni operatori della distribuzione non vogliono vendere questa carne perché devono esporre una certificazione veterinaria speciale».
La peste suina, insomma, è un’emergenza di cui tutta la filiera suinicola italiana si vuole liberare quanto prima. Il problema è come. L’Italia ha da tempo istituito un commissario straordinario per la peste suina e, pochi giorni fa, ha anche nominato tre sottocommissari ad hoc. I risultati, però, finora non sembrano quelli sperati.
«Nell’ultimo anno – ricorda Scordamaglia – ci siamo concentrati un po’ troppo sugli abbattimenti di suini sani, con un eccesso precauzionale, mentre abbiamo lasciato in vita i cinghiali infetti. Da cinque o sei mesi non c’è più un focolaio in un allevamento domestico, mentre troviamo ancora positività nei cinghiali. Per questo auspichiamo che, grazie al supporto dell’esercito, si proceda al depopolamento di migliaia di cinghiali».
«Quanto fatto finora è insufficiente, tanto che la situazione è peggiorata – sostiene il dg di Assica –. È evidente che l’abbattimento dei cinghiali selvatici, senza un’adeguata opera di contenimento, non serve a niente. Non esiste al mondo un’attività di eradicamento avvenuta con successo che non abbia previsto anche un’attività di recinzione». In Germania, per esempio, se l’emergenza della peste suina è pressoché rientrata è per l’imponente posa di recinzioni lungo il confine con la Polonia.
L’approccio del governo italiano, invece, è più focalizzato sul depopolamento che sulle recinzioni: «All’inizio dell’emergenza – spiega il sottosegretario al ministero dell’Agricoltura, Patrizio La Pietra – sono stati stanziati diversi milioni di euro per realizzare recinzioni che avrebbero dovuto impedire gli spostamenti degli ungulati, ma si è rivelata una strategia tanto costosa quanto fallimentare, principalmente a causa della tipologia frastagliata del territorio italiano. Ora stiamo perseguendo un diverso modello: abbiamo acquistato speciali gabbie, in grado di catturare diverse decine di capi, da collocare in maniera strategica intorno ai territori dove sono presenti gli allevamenti, e abbiamo organizzato un sistema con squadre specializzate, coadiuvate dall’utilizzo di droni e coordinate dal ministero della Difesa, che in 48 ore sono in grado di eradicare gli ungulati presenti su un territorio di 40 km quadrati».
Anche il governo però ammette che «sarà impossibile eliminare la presenza di cinghiali dal territorio italiano». Agli allevatori, per ora, non restano che i 19 milioni di euro stanziati dal ministero dell’Agricoltura: «Vanno a coprire i danni dal 1° luglio 2022 al 30 novembre 2023 – spiega Angela Garofalo, della Cia Agricoltori – e le domande sono in fase di pagamento: se avanzerà qualcosa, toccherà a chi è stato colpito dopo. Ma servono tempi certi per gli indennizzi alle aziende, altrimenti gli allevatori non ce la fanno a rimanere in piedi».
«L’export extra Ue di salumi rischia di bloccarsi per anni»
«La peste suina è diventa per noi il problema dei problemi, perché non abbiamo neppure un allevamento contaminato, eppure basta il ritrovamento di una carcassa infetta di cinghiale per attivare attorno al comune interessato zone di sorveglianza e restrizione sanitaria che bloccano le attività e impattano a cascata sull’intera filiera suinicola per anni. Tranne Canada e Usa, tutti i Paesi extra Ue hanno già chiuso le importazioni. Ma se invece di trovare una carcassa appestata in altura la trovano in un comune come Langhirano, esploderà un dramma non solo economico ma sociale di cui la politica sembra non avere consapevolezza». Suona l’allarme Valerio Pozzi, direttore generale di Opas, prima cooperativa di allevatori suinicoli in Italia, che a Carpi, nel Modenese, ha il più grande impianto di macellazione e stoccaggio del Paese.
Qual è la situazione in Opas?
Non è drammatica, perché finora gli ungulati infetti non sono stati ritrovati nelle aree chiave del nostro distretto, ma basta che domani trovino una carcassa positiva qui vicino e allora tutto il Paese si accorgerà del dramma. Perché noi di Opas rappresentiamo la più grande organizzazione di prodotto in Italia, concentriamo il 12% della produzione suinicola nazionale. E il nostro macello di Carpi ha una capacità produttiva che non ha uguali nel Paese, lavoriamo più di 1,1 milioni di suini sui 9 milioni macellati in Italia, per il 99% destinati alle Dop. Siamo leader nelle certificazioni non solo di prodotto ma per le esportazioni. Il 18% delle cosce certificate che diventano prosciutto San Daniele e il 14% di quelle che vanno a Parma arrivano da noi. E anche chi vuole esportare salumeria nel mondo passa qui da Carpi. Diamo lavoro a più di 600 persone, l’anno scorso abbiamo sviluppato un fatturato di 470 milioni.
Senza contare le esportazioni per centinaia di milioni di euro.
Appunto. Noi siamo il crocevia della filiera italiana della salumeria, non dimentichiamo che il nostro export agroalimentare vale 50 miliardi e un allarme per una tipologia di prodotto diventa un danno di immagine e di business per l’intero settore. Solo Canada e Usa hanno capito per il momento che il problema della peste suina è regionalizzato e non hanno bloccato le importazioni. Ora la zona di sorveglianza è a Pavia, dove ci sono quasi 80mila maiali, ma se si allarga, da un giorno all’altro rischiamo lo stop totale delle esportazioni. Gli 80 allevamenti di Opas sono tra Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte, Veneto, dove si concentra il 90% della suinicoltura italiana.
Quali le soluzioni?
Ce ne sono solo due: abbattere i cinghiali e costruire opere di contenimento per evitare che i cinghiali si spostino diffondendo il virus. Ma la prima operazione non è stata fatta in Italia, mentre nel resto d’Europa hanno messo in campo l’esercito e nel giro di un anno e mezzo hanno risolto il problema. Va ricordato che oggi tutti gli allevamenti di suini hanno misure di biosicurezza, ma se trovano un cinghiale morto fuori dall’allevamento bloccano tutta la zona nel raggio di 15 km e da lì non può uscire nulla, anche se la Psa non fa nulla al consumatore. Se la peste arriva a Langhirano si ferma l’export di una delle più importanti Dop del Paese per anni.
Perché per anni?
Perché per riabilitare le importazioni dall’Italia devono passare due anni dal ritrovamento dell’ultima carcassa positiva alla peste suina. E poi passa un altro paio d’anni per tutto l’iter di riqualificazione. In Cina sono già da due anni che non esportiamo più a causa della peste suina ed è un mercato che per Opas valeva 25 milioni di fatturato. E al di là del danno economico e di immagine, significa lasciar spazio ai concorrenti – in primis spagnoli, tedeschi e danesi – che sono pronti a prendere il nostro posto con salumeria cruda e cotta, vanificando lavoro e investimenti di anni che abbiamo portato avanti come filiera suinicola Made in Italy.
Sale l’allerta nel cuore della Dop del prosciutto
Dopo il primo caso positivo a Ottone, nel Piacentino, a novembre 2023, sono stati registrati in Emilia-Romagna 86 casi di carcasse di cinghiale infette: 65 in provincia di Piacenza e 21 in provincia di Parma (queste tutte nel 2024). Un segnale che il virus si muove, e la necessità di intervenire è diventata un’urgenza. Soprattutto lungo la via Emilia, dove vengono allevati ogni anno 800mila suini, con un migliaio di allevamenti attivi e una filiera della salumeria Dop e Igp che vale quasi un miliardo di euro, 800 milioni solo della Dop del Prosciutto di Parma.
Ne è consapevole Alessio Mammi, assessore regionale Agricoltura, agroalimentare, caccia e pesca, pur evitando allarmismi. «Negli allevamenti non sono stati rinvenutisuini positivi al virus e per ora sono state attivate solo zone di sorveglianza di tipo uno e due a Piacenza e a Parma, concentrate in Appennino, non in pianura», spiega Mammi. E alle critiche dell’opposizione per non aver agito con forza sulle attività di depopolamento dei cinghiali, replica che già dal 2021, prima che la Psa varcasse i confini nazionali, la Regione aveva aumentato le risorse economiche e i limiti dei prelievi venatori: i 31mila capi abbattuti nella stagione di caccia 2021-22 sono diventati il 20% in più tra 2022 e 2023. «È diminuita l’attività venatoria tout court – precisa l’assessore – ma su questo hanno influito da un lato l’alluvione di maggio, che ha modificato i territori della Romagna, e dell’altro le restrizioni decise in seguito al ritrovamento dei primi casi».
Viale Aldo Moro è da agosto 2022 che ha messo a punto una strategia specifica per arginare la peste suina, presa anche a modello dal Commissario straordinario: attività di depopolamento intensificata soprattutto nei distretti più vocati alle produzioni suinicole; aumento delle attività di ricerca passiva di carcasse; incremento del livello di biosicurezza nelle aziende zootecniche, con bandi per 9 milioni di euro destinati agli allevatori. «Proprio in questi giorni abbiamo aperto un terzo bando urgente da altri 3 milioni di euro – precisa Mammi – che consente alle aziende di chiedere il contributo dalla data di presentazione della domanda di sostegno senza attendere la pubblicazione della graduatoria finale. È previsto anche il rimborso delle spese per le recinzioni antintrusione e quelle per la realizzazione di piazzole per la disinfestazione degli automezzi e delle zone filtro, con una copertura
degli interventi al 70%. Ma le misure di una singola regione non bastano, serve una strategia unica nazionale e serve subito, il tempo è un fattore critico».
Nel Parmense la preoccupazione è altissima. «Se i cinghiali infetti, per ora circoscritti in zone appenniniche, scendono in pianura le ripercussioni economiche e sociali saranno enormi – avverte Paolo Tanara, capo consulta Prosciuttifici dell’Unione parmense industriali, che aggrega oltre il 50% della Dop –. Già ora, oltre ad aver perso cinque mercati, tra cui due in forte espansione come Giappone e Cina, e a vendere 500mila prosciutti in meno, abbiamo difficoltà negli approvvigionamenti. Se anche Canada, Stati Uniti e Australia bloccano le importazioni, per noi vuol dire perdere il 30% delle vendite con conseguenze su imprese, posti di lavoro e indotto».
Speciale Il Sole 24 Ore