Lo studio Cgil: in 5,7 milioni guadagnano 800 euro al mese, pesano contratti intermittenti e part time, ma aumentano le ore lavorate
ROMA — Quasi 11 milioni di lavoratori in Italia, oltre la metà del totale – 10 milioni nel privato e quasi un milione nel pubblico soprattutto nella scuola e in sanità – vivono nel vasto mondo del precariato. Non solo contrattini a tempo, stagionali, somministrati. Anche stabili, ma part-time o discontinui, quindi attivi solo in una parte dell’anno o per poche ore al giorno.
Come diretta conseguenza, i salari italiani sono tra i più bassi d’Europa, nonostante l’Italia sia al top per ore lavorate: 1.563 in media all’anno nel 2022, contro 1.295 di un tedesco e 1.427 di un francese. Con questi divari retributivi: 31.500 euro lordi medi in Italia, 45.500 euro in Germania, 41.700 euro in Francia e, peggio di noi, 29.100 euro in Spagna.
Se poi a questo deficit strutturale aggiungiamo il 17,3% di inflazione accumulata tra 2021 e 2023, e quasi per nulla recuperata, e il mancato rinnovo dei contratti nazionali (scaduti per oltre la metà dei lavoratori, anche da 5-10 anni), si capisce perché da noi il lavoro povero sia un’emergenza.
Il quadro presentato dalla Cgil, in uno studio firmato dall’economista Nicolò Giangrande, fa parte di una campagna di sensibilizzazione e di lotta contro la precarietà lanciata dal sindacato guidato da Maurizio Landini. “La precarietà ha troppe facce. Combattiamola insieme”, dice lo slogan che accompagnerà le prossime 9 settimane di mobilitazione, raccontando le facce, i volti dei precari.
Lo studio di Giangrande conferma che il nodo è la discontinuità lavorativa: molti, troppi, lavorano poche ore o poche settimane all’anno, con basse qualifiche e buste paga leggere. E quando accade, anche se con un contratto a tempo indeterminato, il salario va giù.
Se dallo stipendio medio, calcolato dall’Ocse sul lavoratore tipo a tempo pieno che lavora in modo continuo tutto l’anno, si scende alla realtà dei dati Inps che pesano tutti i contrattini fatti di mesi ed ore, si arriva a una dura conclusione.
Dieci milioni di lavoratori del settore privato guadagnano meno di 17 mila euro lordi all’anno. E tra di loro, 5,7 milioni di dipendenti sono sotto i 10.700 euro, poco più di 800 euro lordi al mese. Tra i pubblici, 871 mila sono sotto i 22 mila euro lordi all’anno e di questi in 640 mila prendono meno di 15 mila euro.
Un vasto mondo di precari che non ha un’etichetta sola. Ci sono i part-time forzati. Gli stagionali. I collezionisti di contratti a tempo sempre più corti: l’82% delle assunzioni stipulate nel 2022 durava meno di un anno e di queste la metà fino a 90 giorni. Solo il 17,5% dei nuovi contratti andava oltre la soglia dell’anno.
C’è poco da stare allegri. Va così da trent’anni ce lo ricorda l’Ocse con la curva dei salari. Quella di Germania e Francia si impenna nel periodo 1992-2022: +23% e +32%. Mentre quindi le retribuzioni tedesche crescevano di un quinto e quelle francesi di un terzo, le italiane cadevano dello 0,9% e spagnole rimanevano invariate.
Tradotto in soldi, il differenziale tra Germania e Italia è passato da 5 mila a 14 mila euro in meno. Quello tra Francia e Italia da +132 euro a -10 mila euro. Persino il vantaggio che avevamo sulla Spagna si è asciugato da +2.700 euro a +2.400 euro.
La Cgil parla di «allarme» e studia un referendum contro il Jobs Act. E intanto il governo Meloni si gode un rimbalzo dell’occupazione che coinvolge soprattutto gli over 50, anche per un fattore demografico. Il lavoro povero non rimbalza, però.