Quattro anni dopo lo scoppio della pandemia, la ricerca continua a indagare sui disturbi che perdurano per più di 12 settimane dal termine della fase acuta dell’infezione da virus Sars-CoV-2. Secondo le stime interessa circa il 10-20% delle persone colpite dal coronavirus.
VERA MARTINELLA, Il Corriere Salute
Statistiche ufficiali non ce ne sono né per l’Italia né per altri Paesi e quando si parla di Long Covid bisogna mettere in conto che molte domande sono ancora senza risposta. A quattro anni dallo scoppio della pandemia di Covid-19 la ricerca scientifica è tenacemente all’opera in tutto il mondo per «risolvere il puzzle Long Covid», come titola uno degli studi di revisione più ampi, pubblicato di recente fa sulla rivista Science. Ci sono tanti pezzi, certamente non tutti, e molto resta da fare per capire come metterli insieme.
Le varianti
Con un’aggiunta: parecchi frammenti del puzzle sono cambiati nel tempo con l’arrivo di diverse varianti del virus. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha deciso di chiamarla ufficialmente post Covid-19 condition: è la condizione di persistenza di segni e sintomi che continuano (o si sviluppano) oltre le 12 settimane dal termine della fase acuta di malattia. Milioni di persone ne hanno sofferto e ancora ne stanno soffrendo.
I numeri
«Secondo diversi studi questa condizione, che preclude un pieno ritorno al precedente stato di salute, può colpire fino a 1 persona su 2, ma le stime più condivise dicono che circa il 10-20% di chi ha contratto l’infezione da Sars-CoV-2 va incontro a sequele sul lungo periodo» dice Sergio Harari, professore di Medicina Interna all’Università degli Studi di Milano.
Lungo quanto? «Settimane o mesi, ma sono documentati numerosi casi di Long Covid persistente, ovvero di persone che non sono mai guarite» precisa Harari, che è anche direttore della Pneumologia e della Medicina interna all’Ospedale San Giuseppe Multi-Medica di Milano.
Alcune cose appaiono comunque chiare, a partire dal fatto che i disturbi possono colpire tutti: bambini, adulti e anziani, uomini e donne, non emergono differenze epidemiologiche fra le diverse etnie. «Sappiamo poi che soffre meno di Long Covid chi si è vaccinato e che rischia di più chi ha avuto un’infezione in forma grave: soprattutto chi viene ospedalizzato (e ancor di più chi ha avuto bisogno di terapia intensiva) ha maggiori probabilità di sequele indesiderate — dice Alessandro Nobili, capo del Dipartimento di Politiche per la Salute all’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri —. E che a varianti del virus differenti (come Delta, Omicron, ecc.) sembrano corrispondere altrettante conseguenze sul lungo periodo. In particolare la perdita di gusto e olfatto ha interessato soprattutto chi si è infettato agli inizi».
Nonostante queste poche certezze, va detto che parecchi casi di Long Covid sono stati registrati in chi ha contratto l’infezione in forma medio-lieve perché a oggi (dopo la vaccinazione massiccia e l’attenuazione della gravità del virus) la maggior parte delle persone non ha sofferto di Covid-19 nelle sua forma grave.
Oltre 200 sintomi
A complicare notevolmente il quadro c’è poi il fatto che la sindrome post Covid può interessare praticamente tutto il corpo e che sono stati catalogati circa 200 sintomi. I dati raccolti dal «progetto Long-CoViD» coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità scattano la fotografia dei sintomi più frequenti in Italia a dicembre 2023: astenia (stanchezza cronica o fatigue), affaticamento respiratorio e mancanza di fiato (dispnea), disturbi del sonno e della memoria, dolori articolari e muscolari, difficoltà di concentrazione.
Categorie a rischio
Valutando le informazioni su milioni di persone alle quali è stata diagnosticata la sindrome post Covid emergono alcune categorie più esposte al rischio di svilupparlo in foma severa: chi ha un’età più avanzata, le donne, chi è obeso o sovrappeso, chi soffre di altre malattie (come diabete, ipertensione arteriosa, asma, ad esempio).
I test diagnostici
«Gran parte delle difficoltà risiede anche nel fatto che a fronte di tanti sintomi diversi non esiste un unico test di diagnosi — spiega Amedeo Capetti, responsabile dell’Ambulatorio rivalutazione Covid all’Ospedale Sacco di Milano —. E poi nella grande maggioranza delle persone i disturbi durano qualche mese (in media un anno). «Nei nostri ambulatori, però, seguiamo soprattutto i pazienti che hanno problemi permanenti — aggiunge —. Spossatezza e annebbiamento cerebrale sono i più duraturi, debilitanti e invalidanti. Abbiamo persone che sono persino state costrette a lasciare il lavoro e non esistono cure specifiche». Le conseguenze neurologiche, ma anche quelle neuromuscolari, poi, sono difficili da inquadrare e ricondurre a Long Covid, per cui spesso chi ne soffre patisce pure la frustrazione di non ricevere una diagnosi.
Le terapie
Quali terapie si possono prescrivere? «Valutiamo caso per caso — conclude Capetti —. Per la spossatezza il 70-80% dei pazienti sembra avere miglioramenti con integratori che riducono lo stress ossidativo. E abbiamo capito che la fatigue è “altalenante”, a volte sembra scomparire, altre volte però poi torna. Per la perdita di gusto e olfatto (prevalenti soprattutto nel Long Covid della prima ondata) non abbiamo rimedi: i più recuperano in fretta, ma c’è chi ci mette 12 mesi (passando per alterazioni difficili da sopportare), chi non recupera completamente e una minima quota di persone che, dopo quattro anni, non ha ancora riacquistato questi sensi».