La scarsa occupazione femminile, ilgender gap e la crescita zero: questi tre problemi sono così intrecciati che per risolverne uno occorre affrontare anche gli altri due. Che la decisione di fare un figlio sia diventata difficile è ormai davanti agli occhi di tutti. Dal Giappone alla Corea, dalla Cina fino ad arrivare all’Italia, la natalità in molti Paesi si ferma appena sopra l’1%. Ci si è interrogati tante volte sui motivi che portano a desistere dalla maternità e sulle politiche per incrementarla. Si è pensato che il desiderio di essere indipendenti, di non interrompere il percorso lavorativo, la carenza di reali sussidi e di nidi per l’infanzia siano alla base delle scelte no kids .Si è parlato di sogni e di futuro, del fatto che le donne per procreare devono credere che il domani per i loro bambini sia migliore dell’oggi.
Ma a tutte queste spiegazioni se ne aggiunge un’altra che pesa come un macigno: un figlio penalizza fortemente la carriera delle donne a quasi tutte le latitudini e non solo nei primi mesi dopo il parto ma fino al decimo anno d’età del bambino. È la tesi di tre ricercatori – Henrik Kleven e Camile Landais della London School of Economics, e Gabriel Leite-Mariante della Princeton University che per realizzare il loro The Child Penality Atlas , hanno raccolto, in 134 Paesi, i dati di sette miliardi di persone, il 95,5% della popolazione mondiale, e sono giunti alla conclusione che quella che definiscono child penality (penalizzazione sul reddito delle donne dovuta alla nascita di un figlio) affligge la popolazione femminile ed è talmente collegata algender gap che soprattutto nei Paesi più ricchi e nelle megalopoli dei cinque continenti è sovrapponibile.
Nel mondo il 95% degli uomini tra i 25 e i 54 anni lavora, la percentuale per le donne della stessa etàè solo del 52%. Secondo i ricercatori, il 24% delle donne lascia l’impiego nel primo anno di vita del bambino, cinque anni dopo, il 17% è ancora assente, dopo dieci anni siamo al 15%. In molti Paesi uomini e donne partono alla pari ma il divario inizia dopo la nascita di un figlio che sugli uomini ha un impatto zero mentre sulle donne è una bomba a orologeria.
Molte donne affermano che continuare a lavorare significa girare quasi interamente il proprio stipendio a una baby-sitter o a un nido privato, altre sostengono che il peso dell’accudimento in famiglia si è talmente spostato sulle loro spalle da non vedere altra soluzione che quella di abbandonare il loro impiego. Avere un figlio comporta quindi delle rinunce.
E questo riguarda quasi il mondo intero con diverse sfumature. Nei Paesi ricchi, l’80% del divario tra la partecipazione alla forza lavoro maschile e femminile è dovuto alle donne che escono dal mercato del lavoro dopo la nascita del loro primo figlio. Al contrario, nei Paesi più poveri, la maternità riguarda solo circa il 10% del divario. Lì, le donne tendono a lasciare il lavoro al momento del matrimonio, di solito molto in anticipo rispetto alla nascita del primo figlio. In America Latina lachild penality è più alta e il tasso di occupazione delle donne rispetto agli uomini equivale al 38%. In Africa e Asia, è più modesta, con impatti medi rispettivamente del 9% e del 18%. In Europa e America del Nord i livelli sono intermedi. L’Europa è variabile, con i Paesi scandinavi che rasentano il 10% mentre le percentuali salgono nel centro e sud del continente. In Italia è del 40%, in Portogallo del 20% mentre in Spagna supera il 40%. Le grandi città sono più penalizzanti: Londra, per esempio, ha il 43% contro il 34% del resto dell’Inghilterra, lo stesso vale per Pechino (12% contro il 4% della Cina).
Il motivo, secondo i ricercatori, è semplice: «Nei primi stadi dello sviluppo, le penalità per i figli rappresentano una minima frazione dell’ineguaglianza di genere. Ma man mano che le economie si sviluppano – i redditi aumentano e il mercato del lavoro passa dall’agricoltura di sussistenza al lavoro salariato nell’industria e nei servizi le penalità per i figli gradualmente diventano il principale motore dell’ineguaglianza di genere nel mercato del lavoro».
Questo si riflette direttamente sulgender gap . In Danimarca, per esempio, dove le penalità sono modeste (14%), ilgender gap è dovuto interamente alla diseguaglianza salariale mentre in altri paesi dove lachild penality è alta, eliminare ilgender gap è praticamente sinonimo di eliminare queste penalizzazioni. I due problemi e le loro soluzioni sono indissolubilmenteintrecciate.
Repubblica