Donato non contesta le regole. «Preferirei poter scegliere quando uscire per avere per esempio le condizioni meteo più favorevoli alla pesca ma va bene così», spiega. Lui ha 28 anni e c’è stato un momento in cui aveva pensato di sfuggire alla vita in mare che era stata di suo padre. Ha frequentato due anni di università poi si è reso conto che non era quello che voleva. «Non mi sentivo vivo». Ha abbandonato i libri e le lezioni e, con la passione e l’incoscienza di chi ha un futuro da costruire, ha investito tutti i risparmi per acquistare il peschereccio dove il padre gli aveva insegnato il mestiere: la Genoveffa madre, 19 metri e quasi mezzo secolo di onorato servizio. «Un po’ anziana ma era la barca che volevo. Ho ipotecato la casa per trovare i 200mila euro necessari e ho iniziato».
È diventato quello che per l’Ue è un distruttore del mare. E’ l’accusa che più fa arrabbiare Donato e quelli come lui che lavorano con la rete a strascico. «Se sul fondale ci fosse la prateria di coralli e rocce che ci accusano di danneggiare, non caleremmo la rete nemmeno per un minuto perché la romperemmo. In ogni caso esistono già dei limiti che rispettiamo: non peschiamo nei punti protetti o rocciosi, solo in zone dove c’è sabbia o fango. E dove c’è sabbia c’è soltanto sabbia, e dove c’è fango c’è soltanto fango. Per rendersene conto basterebbe saperne un po’ di pesca: le specie che portiamo a terra sono quelle che vivono nella sabbia e, in ogni caso, se andassimo sotto gli scogli con le nostre reti finiremmo soltanto per incagliarci e lasciare a mare diecimila euro».
Parole che dalle parti di Bruxelles non sembrano trovare ascolto. Per l’Ue la rete a strascico resta un tipo di pesca poco sostenibile e ha imposto limiti crescenti negli anni per ridurre il suo impatto sull’ambiente. Oltre ad aver fissato un numero massimo di giorni per pescare, ha deciso periodi di fermo stagionali, regole stringenti sul tipo di rete da usare, le attrezzature sempre più costose e tecnologiche da avere in navigazione come il giornale di bordo elettronico da aggiornare a ogni calata di rete con la quantità e il tipo di pesce pescato, un lavoro da completare quasi in tempo reale anche se c’è tempesta o mare grosso e si è da soli in cabina. I limiti crescenti hanno avuto il loro effetto: il settore ha subito una brusca frenata ed è entrato in crisi. Donato ha iniziato mentre in tanti intorno a lui abbandonavano. A Manfredonia in pochi anni le licenze per la pesca a strascico si sono dimezzate, la flotta che riempiva il porto lungo i moli di levante e ponente ora è di circa 150 mezzi e occupa una parte minore del porto. E a livello nazionale non va meglio. Secondo gli ultimi dati di Fedagripesca-Confcooperative nel 2022 il prodotto pescato dalla flotta italiana ammontava a circa 125.839 tonnellate, con un valore di 740 milioni di euro. Dal 2012 ad oggi il valore totale delle produzioni sbarcate è diminuito di circa il 35% e la flotta da pesca nazionale di oltre il 20%. Le 11.807 imbarcazioni attive nel 2022 avevano un’età media di 31 anni. Si assottiglia inesorabilmente anche il numero di persone che si ostinano a fare questo mestiere, ne sono rimasti in 22 mila a imbarcarsi, di cui circa 19.000 a tempo pieno (10 anni fa erano circa 30.000, il 16% in meno). Le catture calano al ritmo del 2% l’anno così come i redditi: l’incidenza dei costi di produzione (soprattutto energetici) per alcuni tipi di pesca, come quella a strascico, è nell’ordine del 60/70%. E, nel corso dell’ultimo decennio, i guadagni provenienti dagli sbarchi sono diminuiti di oltre il 30%.
«Ma sa qual è il dato paradossale? – precisa Paolo Tiozzo, vicepresidente Fedagripesca-Confcooperative -. I consumi di pesce invece aumentano: in Italia nel 2022 hanno superato il milione di tonnellate. A soddisfare la domanda crescente è l’importazione, in costante aumento da oltre 15 anni». Domenico Carpano, 43 anni, 23 dei quali trascorsi a pescare nel golfo di Manfredonia lo dice in modo ancora più diretto: «Non si trova più il nostro pesce che sappiamo dove e come è pescato mentre si dà il via libera alla vendita di prodotti che arrivano da posti dove non esiste alcun controllo».
E non è ancora finita. Il Piano annunciato dal commissario Ue all’Ambiente promette una nuova serie di ostacoli che stanno gettando ulteriore pessimismo su un settore già in difficoltà. «Al ministro Lollobrigida abbiamo esposto 14 punti, – spiega Paolo Tiozzo – una lista della spesa per contrastare i regolamenti sempre più restrittivi che arrivano dall’Ue con controlli che portano persino le telecamere sui pescherecci per verificare l’attività dei pescatori come se fosse il Grande Fratello, nemmeno fossimo dei carcerati da tenere sotto sorveglianza continua, a vista. È una politica restrittiva che sta provocando enormi problemi. Fanno prima a dirci loro dove dobbiamo pescare. Se non ci sarà un cambio di rotta la grande pesca rischia di chiudere entro il 2030».
Vista dal porto di Manfredonia, insomma, l’Ue sembra ancora più lontana dei 1700 chilometri che la separano. «Ma non siamo contro Bruxelles. – precisa Gaetano Vitulanio, 55 anni, la gran parte vissuti in mare -. Chiediamo, però, che il governo Meloni non ci i faccia cadere addosso da un giorno all’altro le nuove limitazioni. Vogliamo essere accompagnati in maniera graduale». Altrimenti? «Se non vedremo l’accompagnamento che chiediamo siamo disposti a non votare nessuno – avverte Domenico Carpano -. Ma si deve sapere che, se cambiamo mestiere noi, dovranno cambiarlo anche quelli che governano».—
La Stampa