Alla fine la Lega ha accelerato e ha voluto dirigersi dritta contro un muro. Il suo emendamento al decreto Elezioni per estendere a tre i mandati possibili per i presidenti di Regione è stato bocciato senza appello. Il Carroccio, in commissione Affari costituzionali del Senato, si è ritrovato da solo perché Fratelli d’Italia, Forza Italia e Udc hanno votato contro e con loro tutto il campo progressista (Pd, M5s e Verdi-Sinistra). Con i leghisti ha votato solo Italia Viva, forse per effetto di quel tic sempre più frequente di votare volentieri con pezzi di centrodestra. “Vota il Parlamento, andiamo avanti”, aveva detto alla stretta vigilia del voto il leader del Carroccio Matteo Salvini ad Agorà, su Rai 3. Il risultato finale è stato: 4 sì, 16 no, un astenuto (della Südtiroler Volkspartei) e un senatore che non ha partecipato (l’esponente di Azione). La norma, se fosse stata approvata, avrebbe favorito tra gli altri il presidente del Veneto Luca Zaia.
Non è vero che ne hanno parlato nelle ultime ore o che è stato oggetto di trattativa dietro il palco dell’ultimo comizio in Sardegna. Nell’entourage di Giorgia Meloni si smentisce la tesi frettolosamente sostenuta da Matteo Salvini. Nessun confronto decisivo sul terzo mandato per i governatori di Regione, bocciato in Senato. Un altro segnale, se fosse necessario, della disgregazione della fiducia reciproca tra i due leader. La premier non ha intenzione di parlarne ancora ed è netta: «Non voglio saperne più nulla». Più forte è invece la preoccupazione per l’esito del voto sardo. Quello sì, potrebbe rappresentare una slavina. Dallo staff, comunque, la descrivono super concentrata su altro: sul dossier Ucraina e sul discorso di Donald Trump dal palco ultraconservatore della Cpac. Domani nel primo pomeriggio Meloni presiederà il G7 in videoconferenza e nelle prossime ore volerà a Kiev. Lo farà solo con le tv e le agenzie al seguito, perché i quotidiani sono stati esclusi. A domanda diretta non ha smentito che potrebbe guidare il vertice direttamente con al suo fianco il presidente Volodymyr Zelensky. Per il suo debutto da presidente di turno del vertice che riunisce i sette leader democratici, Meloni vorrebbe avere tutto sotto controllo, ma conosce bene la prevedibilità dei meccanismi della politica. Ogni piccolo incidente dentro la maggioranza può allargare il fossato che si sta creando con Salvini.
Anche per questo, dal salotto televisivo di Bruno Vespa, ha rilanciato sulla necessità di sottoporre il premier al vincolo dei due mandati, come per i governatori e per i sindaci. Una proposta che Fratelli d’Italia vuole inserire all’interno della legge costituzionale sul premierato. E che servirebbe – in teoria – a placare l’ira dei sindaci e dei governatori che finiranno sotto la tagliola imposta alla Lega e al suo presidente di regione più amato: Luca Zaia.
La ferita sul terzo mandato, che poi è una ferita sul Veneto, potrebbe essere fatale per il Carroccio, e di conseguenza destabilizzare la coalizione. Soprattutto se alle Regionali del 2025 i veneti dovessero confermare l’intenzione di andare da soli, con un uomo legato a Zaia, contro la candidatura imposta da Meloni. Il destino di Zaia è la mina vagante da qui ai prossimi mesi. «Senza il Veneto, la Lega perde la sua ragione d’esistere», sono le parole ribadite giorno dopo giorno dal capogruppo in Consiglio regionale Alberto Villanova, fedelissimo del “doge”. Ma i meloniani non vogliono sentire ragioni. I rapporti di forza sono cambiati e FdI pretende una regione del Nord.
Meloni aveva provato a offrire una via d’uscita a Salvini, rinviando la questione dei mandati a dopo il voto europeo del 9 giugno. Invece, in nome di Zaia, il segretario leghista ha dato il via libera alla presentazione dell’emendamento. Una forzatura. Un tentativo fallito sul nascere. Anche perché l’impostazione della proposta prevedeva di ricalcolare da zero i mandati. «Si immaginavano di governare per altri quindici anni? Sapevano benissimo come sarebbe andata a finire», il commento della premier ai collaboratori.
Ma lo strappo è lì, messo nero su bianco nell’esito che conferma la bocciatura dell’emendamento presentato in commissione in Senato. «Ci riproveremo più avanti» promette Paolo Tosato, il leghista che del testo era primo firmatario. Lo rifaranno direttamente in Aula, sperando in un ripensamento del Pd pressato dai sindaci e dall’ala del governatore Stefano Bonaccini. Mentre alla Camera giace ormai da più di un mese la proposta di legge – di Alberto Stefani, segretario veneto della Lega, delfino di Salvini e tra i candidati in pectore alla presidenza della Regione – dal contenuto uguale. Si tratta soltanto di calendarizzarla, magari con un aiuto del presidente di Montecitorio, il veneto Lorenzo Fontana. Ma a credere nello Zaia-quater, sono in pochi. E lo stesso presidente, appena due giorni fa, profetizzava con ironia: «So di avere i giorni contati». Per lui si ipotizzano vari scenari. Uno europeo, il più insidioso per tutti: Salvini gli avrebbe proposto più volte la candidatura, anche semplicemente di bandiera, per trainare un partito in crisi di consensi, ma lui avrebbe sempre declinato l’invito. In realtà è una ipotesi da incubo per il capo del Carroccio, ma anche per FdI. Se la Lega dovesse sprofondare ovunque sotto l’8% (è data al 6-7% nei sondaggi della destra), tranne nel Nord eEst dove Zaia porterebbe al 20% i voti, si porrebbe un tema di leadership nel partito, ma creerebbe un bel problema di territorio anche a Meloni, che in quella circoscrizione vorrebbe candidare il fratello del ministro Luca Ciriani.
Ma sono anche altri gli scenari che si disegnano per Zaia. Si parla di una corsa all’amministrazione di Venezia, di un ritorno al ministero dell’Agricoltura o della presidenza del Coni, in vista dei Giochi invernali. Ma si parla soprattutto di Zaia come “padre nobile” di una lista a suo nome, che i leghisti veneti vorrebbero presentare alle prossime regionali. Contro FdI. Il centrodestra ne uscirebbe ancora più spaccato. I leghisti sono certi che così vincerebbero, e i meloniani temono questo scenario, che certo porterebbe a una frattura a ogni livello, regionale e nazionale. La partita, in casa Lega, vede già due possibili candidati: Stefani, appunto, e poi Mario Conte, sindaco di Treviso, dal consenso plebiscitario e dal profilo progressista.
«Qualcuno a Roma crede che, con il voto di oggi, la battaglia sia terminata. Si sbaglia – avverte Villanova – Con oggi si inizia». Parole rivolte a Roma, certo, ma che sicuramente risuoneranno anche in qualche ufficio di via Bellerio, a Milano, dove ha sede la Lega. Perché, se le europee dovessero rivelarsi il palco di una nuova débâcle, dal Veneto fanno sapere di non avere più intenzione di assistere a questo stillicidio marcato Salvini. E allora il “movimento Zaia” potrebbe puntare a un obiettivo più ambizioso del palazzo veneziano che si affaccia sul Canal Grande. —
La Stampa