Per il Cnel solo nel privato sono 553 scaduti su 976. Milioni di lavoratori aspettano le intese per recuperare potere d’acquisto La crescita delle retribuzioni aiuterebbe i consumi che quest’anno sono l’unico motore dell’economia. Ma le aziende resistono
Il contratto del commercio, che definisce le buste paga di oltre 3 milioni di lavoratori italiani, è scaduto da quattro anni, 31 dicembre 2019. Viene dal mondo di prima: prima della pandemia, dei lockdown, della riapertura, dell’Ucraina, dell’inflazione senza precedenti che ha eroso il potere d’acquisto dei salari. L’anno scorso, aspettando il rinnovo Godot, i dipendenti di negozi e supermercati hanno ricevuto 350 euro di una tantum e un mini aumento in busta paga di 30 euro lordi. Un pannicello caldo, rispetto a quantoil caro prezzi si è mangiato. I negoziati tra sindacati e datori di lavoro dovrebbero riprendere questo mese, ma le posizioni restano distanti. I primi chiedono il pieno recupero dell’inflazione, le aziende replicano che gli aumenti devono essere sostenibili, in un momento in cui l’economia italiana arranca.
Il commercio è l’esempio più eclatante di come i ritardi nei rinnovi dei contratti frenino la ripresa dei salari in Italia, rispetto agli altri Paesi europei. Ma non l’unico. A dicembre secondo l’Istat – che monitora 73 tra gli accordi più rappresentativi – ben 29 erano in attesa di rinnovo, lasciando scoperto il 52,4% dei dipendenti pubblici e privati. Valore che sale al 57% nei calcoli del Cnel, che raccoglie l’intero universo dei contratti e lo scorso luglio ne contava 553 scaduti su 976 per il solo settore privato, quasi 8 milioni di lavoratori. E neppure l’attesa pluriennale dei dipendenti del commercio è così eccezionale: il tempo medio tra scadenza e rinnovo, per tutti, è di 32 mesi, più di due anni e mezzo.
In questa media sconfortante, le differenze tra i settori ci sono e rendono evidente il legame tra rinnovi e tenuta delle retribuzioni. Nel pubblico tutti i contratti sono scaduti. A metà del 2022 – paradosso emblematico – è stato firmato l’accordo per il periodo 2019-2021. Un rinnovo “ex post”, ma che ha comunque portato i salari degli statali a crescere più di quelli del privato, dopo anni piatti. E un’ulteriore spinta alle buste paga, a dicembre, l’ha data l’erogazione anticipata dell’indennità di vacanza, 70 euro lordi al mese.
Nel privato invece c’è un enorme divario tra industria e i servizi. Nella prima a dicembre risultavano in attesa di rinnovo solo il 7,5% dei contratti, nei secondi il 63%. Una delle ragioni per cui i salari della manifattura hanno retto meglio: 4,5% l’aumento a dicembre rispetto allo stesso mese del 2022 – non lontano dal valore generale europeo – , contro il 2,4% dei servizi, nonostante nella loro media entri il generoso rinnovo dei bancari. In soldoni, significa che mentre per i colletti blu una parziale ripresa del potere d’acquisto è iniziata, non così nel terziario.
Questo non vuol dire che i prossimi rinnovi dell’industria saranno facili, considerato che dopo la ripresa dorata ora la produzione flette. A giugno scade il contratto dei metalmeccanici, laboratorio di relazioni industriali, con sindacati e imprese che litigano sul meccanismo oggi previsto di adeguamento “ex post” all’inflazione. Ma i rinnovi dei servizi, dove i profitti sono stati inferio ri e la produttività langue, sono molto più in salita. A braccetto con il commercio va il turismo, che male non è andato, ma anche un settore in crisi strutturale di profitti come le telecomunicazioni, il cui accordo è scaduto da oltre un anno.
Sabato il governatore di Bankitalia Panetta ha detto che è “fisiologico” che i salari salgano e che un «qualche» recupero del potere d’acquisto perso sosterrebbe anche la crescita italiana. Il legame è evidente. Tra i vari “motori” del Pil i consumi hanno recuperato con più difficoltà i livelli pre pandemia. Ma ora che gli investimenti sono in discesa e l’export non tira, restano l’unico traino della magra crescita prevista quest’anno, sette decimi nelle stime di Bankitalia. Salari più alti, quindi più consumi, è un circolo che in teoria dovrebbe convenire anche alle imprese, che devono pur sempre vendere agli italiani. E sempre in teoria i buoni profitti degli ultimi mesi danno loro spazio per assorbire qualche aumento, “redistribuendo” così ai dipendenti i costi di un’inflazione da cui loro si sono difese alle grande. In pratica, in questa congiuntura debole, le resistenze saranno tante. E visto che per le imprese anche rinviare va bene, la ripresa dei salari rischia di restare lontana da un pieno recupero.