Intervento di Carlo Petrini, la Stampa. Carne sintetica sì. Carne sintetica no. Questo è il problema. O almeno questo è quello che crede il governo italiano, che ora ha trovato altri ministri dell’agricoltura alleati per portare l’istanza all’interno dei palazzi europei. Un punto all’ordine del giorno dell’ultimo consiglio dei ministri dell’agricoltura europei riguardava proprio il “no” alla carne sintetica; portando come motivazioni principali la necessità di tutelare la salute dei cittadini e far sì che la politica agricola comune (PAC) continui a favorire un’alimentazione di qualità. È una battaglia ideologica che crea un capro espiatorio e distoglie l’attenzione pubblica dal vero problema: l’insostenibilità degli attuali consumi di carne, resi possibili da un modello di allevamento intensivo altrettanto insostenibile e finanziato da quella stessa PAC che dovrebbe garantire un’alimentazione di qualità
Aggiungo un altro elemento: i più accesi sostenitori del “no” alla carne sintetica si sentono investiti del ruolo di paladini difensori della tradizione. La tradizione in questione è in realtà relativamente recente. Sì, perché la carne è entrata a far parte in maniera consistente della dieta di noi italiani solo dal secondo dopoguerra in avanti, quando bisognava allontanare lo spettro della fame e ogni chilo di carne in più era un’enorme conquista. Secondo i dati della FAO negli Anni ‘60 gli italiani consumavano 27 kg di carne pro capite all’anno, oggi parliamo di 79 kg. Rimanendo nell’alveo della tradizione e chiamando in causa la tanto blasonata dieta mediterranea (di cui ci fregiamo di esserne i natali), vediamo come secondo i suoi precetti il consumo di carne (specialmente quella bovina) dovrebbe limitarsi a massimo due porzioni a settimana. Quindi più che di una difesa della tradizione sarebbe meglio parlare di una difesa della lobby della carne che negli ultimi anni si è arricchita, anche e soprattutto grazie ai finanziamenti europei, immettendo sul mercato prima, e di conseguenza negli stomaci di tutti noi poi, grandi quantità, scarsa qualità, molto inquinamento ambientale e svariati problemi di salute. L’attuale industria zootecnica da sola è responsabile del 15% delle emissioni totali di gas serra. Contribuisce alla perdita di biodiversità avendo ridotto all’osso le razze allevate selezionando quelle più produttive (oltre a distruggere migliaia di ettari di foresta per fare posto a monocolture di soia e mais ogm). Ammala i nostri corpi direttamente, attraverso il consumo eccessivo che favorisce la comparsa di diabete, obesità e malattie cardiovascolari; e indirettamente a causa dell’antibiotico resistenza connessa all’elevata quantità di antibiotici somministrati agli animali per scongiurare il propagarsi di malattie, così come per la quantità di ammoniaca immessa nell’ambiente che dà un contributo importante all’aumento delle polveri sottili.
Le mie perplessità su questo divieto tout court sono forti. Va da sé il dovere di precauzione – specialmente in una fase in cui c’è ancora poca chiarezza sulle possibili ricadute negative per la salute – e quindi la necessità di favorire la ricerca. Allo stesso tempo non penso che la tecnologia possa essere la panacea di tutti i mali. In una situazione come questa è importante che lo spirito delle diverse scuole di pensiero privilegi il confronto e il dialogo, rispetto al muro contro muro. Confronto che può essere duro, e anche non foriero di cambi di opinioni, ma aperto all’ascolto e alla reciproca comprensione. Un punto deve essere chiaro: la ricerca scientifica non deve essere in alcun modo ostacolata. Per il sacrosanto principio di precauzione, in questo momento particolare sono contrario alla carne sintetica, ma non sono meno contrario agli allevamenti intensivi, perché in entrambi i casi il potere è nelle mani di poche multinazionali che spogliano il cibo del suo significato culturale, così come del legame con il territorio e con la Natura. Ogni anno nel mondo vengono uccisi 77 miliardi di animali, la maggior parte dei quali hanno trascorso la vita in spazi angusti, alimentati esclusivamente con mangimi e insilati, e con l’unico scopo di diventare carne da macello. Nello scenario appena descritto non vedo nulla di più umano – inteso come rispetto e compassione per la vita delle altre specie viventi – rispetto a una bistecca prodotta in laboratorio.
In Europa peraltro il sistema zootecnico intensivo è tenuto in vita da quella stessa PAC. Quando in realtà tra danni all’ambiente, alle persone e agli animali, di qualità c’è ben poco. Ecco allora che la prima azione da intraprendere sarebbe riformulare la PAC per porre fine allo schema ormai obsoleto che mette la quantità al primo posto (l’80% dei fondi della PAC vengono distribuiti al 20% delle aziende), invece di utilizzare i sussidi come strumento per accompagnare l’evoluzione del settore verso la transizione ecologica. Ma c’è un comparto in sofferenza che necessita il nostro sostegno con assoluta urgenza: si tratta di allevatori virtuosi, non intensivi e che molto spesso sviluppano la loro attività in sinergia con l’agricoltura, con il recupero di razze autoctone e nel rispetto del benessere animale. Questi allevatori sono coloro che oggi non riescono a stare in piedi economicamente. Eppure sono loro la strada per il futuro: sinonimo di sostenibilità degli allevamenti, vitalità delle aree rurali e garanti della sovranità alimentare. In parallelo bisognerebbe educare e informare i cittadini a scegliere in maniera più consapevole le proteine da portare in tavola. È necessario un cambio di abitudini che si esplica anche in un minor consumo di carne, di migliore qualità e diversità (di specie, tagli, preparazioni), e in un maggior apporto di proteine vegetali. Queste a mio avviso sono le soluzioni veramente sostenibili, ossia durature nel tempo, su cui governo e società civile tutta dovrebbero concentrarsi. —