L’intervento di Nino Cartabellotta
La Stampa
Si scrive «autonomia differenziata» ma si legge «frattura del Paese», sicuramente in sanità. Ecco perché, con l’avvio della discussione parlamentare del ddl Calderoli, è cruciale ribadire che la tutela della salute deve essere espunta dalle materie su cui le Regioni possono richiedere maggiori autonomie. Perché in caso contrario si finirebbe per legittimare normativamente il divario tra Nord e Sud, violando il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini nell’esercizio del diritto alla tutela della salute. Ed esistono almeno sei buone ragioni per farlo.
Primo. Il Servizio sanitario nazionale attraversa una gravissima crisi di sostenibilità e il sotto-finanziamento costringe anche le Regioni virtuose del Nord a tagliare i servizi e/o ad aumentare le imposte per scampare al piano di rientro. E guardando alla crescita economica del Paese, all’impatto atteso del nuovo Patto di Stabilità e all’assenza di misure concrete per ridurre evasione fiscale e debito pubblico, non ci sono risorse né per rilanciare il finanziamento pubblico della sanità, né tantomeno per colmare le diseguaglianze regionali. Inoltre, con l’autonomia differenziata le Regioni potranno trattenere il gettito fiscale, che non sarebbe più redistribuito su base nazionale, impoverendo ulteriormente il Mezzogiorno.
Secondo. Il Comitato istituito per definire i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) ha ritenuto che non sia necessario assolvere tale compito in materia di salute, perché esistono già i livelli essenziali di assistenza (Lea). Una pericolosa scorciatoia, visto che il ddl Calderoli rimane molto vago sul finanziamento oltreché sulla garanzia dei Lep secondo quanto previsto dalla Carta costituzionale. Ed è evidente che senza definire, finanziare e garantire in maniera uniforme i Lep in tutto il territorio nazionale è impossibile ridurre le diseguaglianze regionali.
Terzo. In sanità il gap tra Nord e Sud è sempre più ampio, al punto da configurare una vera e propria «frattura strutturale», come dimostrano sia i dati sugli adempimenti ai Lea sia quelli sulla mobilità sanitaria. Il monitoraggio 2021 dei Lea documenta infatti che delle 14 Regioni adempienti solo 3 sono del Sud (Abruzzo, Puglia e Basilicata) e tutte a fondo classifica: alla maggior parte dei residenti al Sud non sono dunque garantiti nemmeno i Lea. E queste diseguaglianze alimentano il fenomeno della mobilità sanitaria: nel 2021 4,25 miliardi scorrono prevalentemente dalle Regioni meridionali verso Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto, le Regioni che hanno già sottoscritto i pre-accordi per le maggiori autonomie e che complessivamente raccolgono il 93,3% dei saldi attivi. Di conseguenza, l’attuazione di maggiori autonomie in sanità nelle Regioni con le migliori performance sanitarie e maggior capacità di attrazione inevitabilmente amplificherà le diseguaglianze già esistenti.
Quarto. Le maggiori autonomie già richieste da Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto ne potenzieranno le performance sanitarie e, al tempo stesso, indeboliranno ulteriormente quelle delle Regioni del Sud, incluse quelle a statuto speciale. In tal senso risulta ai limiti del grottesco la posizione dei presidenti delle Regioni meridionali governate dal centrodestra, favorevoli all’autonomia differenziata. Una posizione autolesionistica che dimostra come gli accordi di coalizione partitica prevalgano sulla salute delle persone. Alcuni esempi: la maggiore autonomia in termini di contrattazione del personale provocherà una fuga dei professionisti sanitari verso le Regioni più ricche, in grado di offrire condizioni economiche più vantaggiose, impoverendo ulteriormente quelle del Sud; così come l’autonomia nella determinazione del numero di borse di studio per scuole di specializzazione e medici di medicina generale determinerà una dotazione asimmetrica di specialisti e medici di famiglia. Ancora, le maggiori autonomie sul sistema tariffario, di rimborso, remunerazione e compartecipazione rischiano di rendere i sistemi sanitari regionali delle entità con regole proprie, sganciate anche da un monitoraggio nazionale, agevolando anche l’avanzata del privato.
Quinto. Nonostante gli entusiastici proclami sui vantaggi delle maggiori autonomie anche per le Regioni del Sud, in sanità è certo che non ne esistono affatto per una ragione molto semplice. Essendo tutte, Basilicata a parte, in piano di rientro o addirittura commissariate (Calabria e Molise), non si trovano nelle condizioni di poter avanzare la richiesta, visto che i piani di rientro di fatto «paralizzano» dal punto di vista organizzativo i sistemi sanitari regionali.
Sesto. Il Pnrr, sottoscritto dall’Italia e per il quale abbiamo indebitato le future generazioni, persegue il riequilibrio territoriale e il rilancio del Sud come priorità trasversale a tutte le missioni. Ovvero, l’intero impianto normativo del ddl Calderoli contrasta il fine ultimo del Pnrr, che dovrebbe costituire un’occasione per il rilanciare il Mezzogiorno, accompagnando il processo di convergenza tra Sud e Centro-Nord quale obiettivo di crescita economica, come più volte ribadito nelle raccomandazioni della Commissione europea.
Ecco perché è fondamentale espungere la tutela della salute dalle materie su cui le Regioni possono richiedere maggiori autonomie. Se così non fosse, saremmo di fronte a una legittimazione normativa della «frattura strutturale» Nord-Sud che comprometterebbe l’uguaglianza dei cittadini nell’esercizio del diritto costituzionale alla tutela della salute, rendendo le Regioni meridionali sempre più «clienti» dei servizi prodotti dalle Regioni del Nord e assestando il colpo di grazia al Servizio sanitario nazionale. Un disastro sanitario, economico e sociale senza precedenti, che viene oscurato dallo «scambio di favori» tra i fautori dell’autonomia differenziata e quelli del presidenzialismo. —