La lectio magistralis di Mariella Enoc
Esiste una fascia di popolazione povera di salute; penso per esempio alle disabilità psichiche soprattutto nei giovani a cui non si sta rispondendo. Penso all’aumento degli anziani, con le inevitabili patologie o malattie degenerative cronicizzate.
Ci sono poi molte persone che non riescono a curarsi perché persino pagare un ticket può costituire un problema; altri hanno difficoltà di accesso ai servizi, altri ancora devono subire lunghe liste d’attesa. Nello stesso tempo esiste una ricerca scientifica che ha fatto passi da gigante con diagnostica e terapie. Certo occorre essere sostenibili, occorrono risorse ingenti nel campo sanitario. Tuttavia la nostra urgenza è più culturale che finanziaria, occorre scommettere su medicina di prossimità e territori come luoghi di relazione, di cura come è stato in passato.
La sanità dovrà essere meglio organizzato e integrata con percorsi, servizi e competenze delle strutture ospedaliere. Altrimenti l’ebrezza del solo privato e la negazione della prossimità di cura rischiano di trasformare la medicina in un privilegio per pochi. Una politica responsabile ha il compito di prevenire come ha fatto Tina Anselmi, la prima donna ministro della Salute, quando nel 1978 si è battuta per il Servizio sanitario nazionale che permette a tutti di curarsi. È per scelte fondate sulla solidarietà che in Italia un vaccino o un esame medico sono a carico dello Stato.
Occorre trasformare la crisi in una sfida per la scienza per mettere in rete chi più sa e chi sa meno, perché nessuno resti indietro. Sono troppi gli egoismi che non permettono di raggiungere questi traguardi, ma non possiamo arrenderci.
Lo dico ai giovani: condividete il sapere come un dono, non possedetelo come qualcosa di sterile che vi rende soli e spesso anche tristi. Sono stata testimone di grandi esempi che mi hanno aiutato ad arrivare fino a qui. Un giorno mi ero scusata con un giovane ricercatore per non riuscire a remunerarlo meglio. Mi rispose: «Si ricordi, presidente, che dietro questa provetta io vedo sempre i bambini». Ho assistito alla grande disponibilità di medici che si prestano a fare interventi pesantissimi, anche a notte fonda, e a volte vengono chiamati senza essere di guardia. Non mi è mai capitato di sentirmi dire «non posso», c’è sempre una risposta positiva. Questo mi colpisce, non è comune.
È vero, negli anni ho visto il ruolo del medico cambiare. Quando ho iniziato a occuparmi di sanità, la cultura le riconosceva un carattere di sacralità e di paternità. Oggi l’autonomia del paziente è la vera grande conquista dell’etica medica. Rischia, però, di ridurre il rapporto medico-paziente a un rapporto tecnico e freddo. La sfida per una università come questa è di formare medici e operatori sanitari che siano grandi esperti di umanità a partire dalle loro professionalità.
Da ormai 50 anni vivo la responsabilità di fare stare bene la comunità perché possa prendersi cura: conosco le ansie di far tornare i conti, di continuare ad innovare e a formare, di fare in modo che pubblico e privato camminino in un’unica direzione.
Ricordate che non sempre l’attenzione alla persona cresce con la tecnicizzazione della medicina, che è sempre più concentrata sull’azione tecnica del «curare» (to cure) la malattia senza un approccio olistico alla persona. Questo non può bastare. Vorrei chiedervi di investire le vostre vite sul «prendersi cura» (to care) anche del mondo affettivo, relazionale, psicologico e spirituale del paziente. Non è solo un atto di carità ma è «atto politico» che permette di prendersi cura delle fragilità, dell’ambiente, del benessere economico, della giustizia e della vita che rimane il dono più grande da onorare in ogni sua manifestazione.
La cura è un cammino e un confine si deve spingere fino al curare gli incurabili, per questo è come un delicato vaso di cristallo. La via da percorrere ha una direzione unica: creare rete nel territorio tra pubblico, privato sociale, privato convenzionato, imprese sociali del terzo settore e volontariato competente. È attraverso un’alleanza di cura che potremo vincere questa silenziosa sfida.
L’articolo 32 della Costituzione, che regola la salute, custodisce il fine dell’azione sanitaria che è occuparsi della salute – dal latino salus -, che è la salvezza integrale dell’ammalato. La visione di salvezza integrale della persona era stata sostenuta da Aldo Moro che nel dibattito della Costituente ci ha ricordato come la salute non si riduce a un facere o non facere, a un’attività giuridica o materiale, ma è un valore del soggetto che l’ordinamento è chiamato a tutelare.
È questa l’eredità che nel piccolo ho cercato di testimoniare. Vorrei piantare ancora alcuni piccoli semi e poi affidarli a voi giovani perché li facciate crescere e li rendiate generativi in una comunità di vita e di scopo dove la scienza è sempre al servizio della persona e ciascuno di noi è un dono per l’altro. —