Tra il 2021 e il 2022 nel nord est Italia si è verificata un’epidemia di influenza aviaria H5N1 ad alta patogenicità. Un’indagine di Network Analysis condotta dai ricercatori dell’Istituto Zooprofilattico sperimentale delle Venezie ha successivamente spiegato la dinamica dell’epidemia valutando l’impatto di potenziali fattori di diffusione dell’infezione. Il lavoro – pubblicato sulla rivista Pathogens – suggerisce possibili strategie di controllo, gestione e prevenzione di future epidemie di influenza aviaria.
Nel 2021 l’allarme nel veronese
Il virus è comparso a ottobre 2021 in un allevamento intensivo del veronese. “Purtroppo la densità di allevamenti in piena attività produttiva nella provincia di Verona e in altre parti del Veneto era molto alta”, spiega Calogero Terregino, direttore del Laboratorio di referenza europeo per l’influenza aviaria (Eurl) presso l’Izs delle Venezie.
“Il virus dotato di una notevole capacità infettante si è propagato molto velocemente in un’area densamente popolata. La velocità di diffusione virale ha messo in crisi gli enti di controllo perché in pochi mesi si è arrivati a 317 focolai nell’area. In Veneto poi il virus si è diffuso nelle province contigue, Vicenza e Padova, ma anche in località extra-regionali coinvolgendo ad esempio le province di Mantova e Brescia”.
La componente uccelli migratori
Non è stata solo una propagazione dall’epicentro Verona ma, come rilevano i ricercatori, ci sono state introduzioni multiple derivanti dalla fauna selvatica presente nelle aree umide che, spostandosi, ha determinato nuovi focolai primari in diverse parti del nord est italiano.
Al riguardo gli uccelli migratori arrivano verso fine agosto e inizio settembre prevalentemente dal nord e dall’est Europa (Romania, Bulgaria, Turchia). Abbiamo punti di ingresso di uccelli che decidono di passare l’inverno, almeno in parte, in Italia. Una volta arrivati compiono spostamenti all’interno del territorio italiano e possono entrare in contatto con aree antropizzate e avvicinarsi agli allevamenti intensivi o rurali eliminando il virus con le feci e trasportandolo in più territori.
Ne deriva che, laddove le misure di biosicurezza non sono perfette, il virus è trasportato all’interno degli allevamenti o nelle aree in cui sono presenti animali domestici.
Diffusione secondaria e primaria
Lo studio dell’Izs delle Venezie è basato in primis su indagini epidemiologiche di tipo classico sul campo: “Si sottopongono domande all’azienda (es. da quanto tempo gli animali stanno male, quali sono le fonti di introduzione nell’allevamento, stato vaccinale, ecc.). I dati epidemiologici raccolti vengono quindi incrociati con i dati di epidemiologia molecolare”, continua Terregino.
“I genomi dei virus individuati nei vari focolai vengono sequenziati per intero mediante un’analisi di Whole genome sequencing (Wgs): in questo modo, ponendo a confronto i genomi, possiamo capire se si è verificata una diffusione secondaria da un allevamento all’altro. Inoltre, analizzando i virus presenti negli uccelli selvatici, qualora il virus dell’allevamento sia identico ad esempio a quello trovato in un gabbiano, possiamo concludere che si tratta invece di un’introduzione primaria. Tutto questo ci consente di ricostruire l’evoluzione dell’epidemia e studiarne la dinamica”.
Strategie di contenimento dell’epidemia
Il lavoro pubblicato su Pathogens ha permesso di fare luce sulle principali vie di diffusione e le criticità.
“Per esempio, è possibile valutare il ruolo dei contatti funzionali tra le aziende o i passaggi da una regione all’altra: lo stesso camion che trasporta il mangime in una regione potrebbe trasportarlo anche in un’altra regione”, osserva il direttore dell’Eurl.
“Vengono quindi individuati i fattori di rischio di diffusione della malattia. L’indagine ha permesso di identificarne alcuni tra cui l’elevatissima densità di allevamenti avicoli intensivi a distanze inferiori al chilometro: in questo caso c’è un maggiore rischio di essere colpiti in maniera secondaria. Ne consegue che una delle strategie più vincenti è obbligare gli allevatori a non accasare più gli animali o ad abbatterli preventivamente per ridurre la densità nell’area e impedire al virus di trovare un substrato su cui replicare. Messo sotto osservazione anche il trasporto degli animali ai macelli: se i camion non seguono i percorsi prestabiliti possono passare vicino ad altri allevamenti e diffondere il virus. Anche il personale e i veterinari sono potenziali veicoli di diffusione”.
Il virus circola tra gli uccelli selvatici
Il periodo critico per la comparsa di focolai è l’autunno: la situazione viene attentamente abbiamo riscontrato focolai nel domestico a eccezione, a giugno, di un caso sporadico in un allevamento di fagiani in provincia di Pavia”, conclude Terregino.
“C’è stata però una circolazione intensa del virus in gabbiani, sterne beccapesci, in parte uccelli migratori molto suscettibili a un particolare genotipo. Si è verificata in queste specie una morìa in tutta Italia e in Europa. Il virus è ancora presente nel serbatoio degli uccelli selvatici per cui, purtroppo, si parla sempre più di persistenza o addirittura di endemizzazione. È chiaro che gli uccelli migratori con i loro spostamenti arrivano a stretto contatto con aree ricche di allevamenti e il rischio di focolai aumenta. Di recente è stato emanato un nuovo dispositivo ministeriale per intensificare le misure di sorveglianza e intercettare rapidamente eventuali ingressi del virus. Inoltre ci si avvale anche della collaborazione delle associazioni venatorie per la sorveglianza negli uccelli selvatici”.