Non c’è mai stata così tanta produzione, ma ai Paesi più poveri potrebbe non arrivare per la scarsa convenienza alle esportazioni
Rosaria Amato, Affari&Finanza. Il prezzo del grano che si è dimezzato rispetto all’anno scorso, con gli agricoltori che, in alcune parti del mondo, sono arrivati a minacciare lo sciopero della semina. L’India che decide di bloccare le importazioni di riso per abbassarne il prezzo, aprendo un altro fronte nella guerra dei cereali. E mentre l’ultimo Bollettino della Fao prevede una produzione cerealicola mondiale da record per il 2023, dopo la paura scatenata nel 2022 per il blocco della produzione ucraina, i produttori europei temono la concorrenza delle importazioni di Paesi terzi, che farebbero crollare ancora di più i prezzi.
Non solo: sempre la Fao, con Unicef e World Food Programme, prevede per il 2024 un forte aumento del numero di persone a rischio di malnutrizione e di insicurezza alimentare nell’Africa occidentale e centrale, con un picco previsto tra giugno e agosto 2024. Un mondo in disordine, dove la crisi travolge i prodotti che da sempre sono alla base dell’alimentazione umana: il grano, il riso e il mais.
L’indice Fao dei prezzi dei prodotti alimentari, che rileva le variazioni mensili a livello internazionale, ha registrato in novembre un valore medio di 120,4 punti, invariato rispetto a ottobre, ma inferiore del 10,7% rispetto al novembre 2022. Le quotazioni internazionali dei cereali secondari sono crollate del 5,6%, con i prezzi del mais innetto ribasso, mentre il valore del grano è rallentato del 2,4% in novembre. «Con l’inizio della guerra in Ucraina l’anno scorso i prezzi sono esplosi perché il grano, che già era stato raccolto, rischiava di rimanere bloccato in Ucraina e Russia », ricorda Monika Tothova, economista della Fao, respingendo l’ipotesi della “speculazione”, che pure in quel periodo era molto quotata: «Sono state le preoccupazioni a spingere in alto i prezzi, chi parla di speculazioni vuole trovare un colpevole a tutti i costi, ma non ci sono prove che sia avvenuto niente del genere».
Stando ai fatti, però, i prezzi medi di 300 dollari a tonnellata di grano sono raddoppiati nel giro di pochi mesi. La preoccupazione della riduzione delle forniture ha spinto probabilmente anche verso un aumento delle semine, che emerge dai dati di quest’anno: la produzione cerealicola mondiale nel 2023 è fissata a 2.823 milioni di tonnellate, in aumento dello 0,9% rispetto all’anno scorso, un volume superiore di 10,3 milioni di tonnellate rispetto al picco raggiunto nel 2021.
Allo stesso tempo, i prezzi di vendita alla produzione sono crollati, ma non quelli dei costi: «I coltivatori devono comprare le sementi in anticipo, e vale anche per i fertilizzanti, acquistati dagli agricoltori a prezzo molto alto. – afferma Tothova – In particolare il nitrogeno costava moltissimo, perché il suo prezzo è correlato a quello del gas naturale». Spesa alta, guadagni modesti, addirittura al di sotto dei costi, hanno denunciato molti agricoltori. In Italia la Cia ha messo in atto una serie di proteste: a settembre ha organizzato un manifestazione di protesta al porto di Bari, cercando di bloccare il grano d’importazione, che avrebbe portato (come poi è successo) a un ulteriore crollo del prezzo. A ottobre ha bloccato le sedute in Commissione Prezzi in Camera di Commercio di Alessandria e Asti per cinque settimane consecutive, impedendo la formazione delle quotazioni.
Ma a star male non sono solo gli agricoltori italiani: secondo le stime del Centro Studi Divulga i Paesi più a rischio, dove gli agricoltori andranno incontro alle perdite economiche maggiori, oltre all’Italia sono Francia, Germania e Spagna, tutti Paesi in cui la manodopera e le materie prime costano di più. Inoltre, segnalano gli analisti di Divulga, la discesa dei prezzi non si è conclusa: nel 2021 e nel 2022 si sono accumulate scorte consistenti di cereali, che l’anno scorso non sono state utilizzate, ancora una volta «per le paure sulla sicurezza alimentare legate allaguerra in Ucraina». E quindi adesso l’immissione sul mercato di questo surplus di produzione (3,6 milioni di tonnellate di grano l’anno scorso) potrebbe avere un ulteriore impatto deflattivo sui prezzi.
Potrebbe essere una parziale consolazione il fatto che i prezzi bassi beneficiano almeno i consumatori. Ma non è così: gli indici dei prezzi al consumo Istat, che hanno innescato la retromarcia da alcuni mesi, si mantengono ancora abbastanza alti sui prodotti alimentari, cereali compresi. E quanto ai Paesi in via di sviluppo, osserva Tothova, «i prezzi al consumo non sperimentano questa discesa, soprattutto perché poi le famiglie non comprano all’ingrosso, comprano prodotti raffinati come il pane o la farina, su cui incidono altri costi di produzione e i costi dei trasporti ». Inoltre nei Paesi in via disviluppo incidono altre variabili, due in particolare: le guerre, e i costi legati alle valute. Le guerre aumentano l’insicurezza, e rendono gli approvvigionamenti di cibo più costosi. E fanno crollare anche le valute locali, che sono debolissime al confronto del dollaro, che viene utilizzato per le quotazioni e gli acquisti di derrate alimentari all’ingrosso. C’è un’ultima variabile: il cambiamento climatico, che aumenta l’insicurezza e pesa sulle oscillazioni dei prezzi.
“In Italia l’import pesa troppo”. Vincenzo Lenucci (Confagricoltura): “Produciamo solo il 35% del frumento e il 40% di mais che consumiamo”
Per gli agricoltori italiani la guerra in Ucraina ha avuto «conseguenze pesantissime che stiamo pagando ancora oggi», a cominciare dagli aumenti dei costi di produzione che pesano sempre di più, a fronte del calo dei prezzi. Ma anche siccità e alluvioni stanno facendo la loro parte: «Nelle quattro province più colpite in Romagna è collocato l’11% della produzione di frumento duro nazionale».
Una serie di fattori che, spiega Vincenzo Lenucci, direttore Politiche di Sviluppo Economico delle Filiere Agroalimentari di Confagricoltura, «pongono un problema concreto per la fiducia degli operatori e la prospettiva di investimenti futuri».
Con la guerra in Ucraina è scoppiato l’allarme cereali, s’è ricominciato a parlare di autarchia e di sovranismo alimentare.
Ma l’impatto sui produttori italiani qual è stato?
«Lo shock del conflitto ha determinato una forte instabilità dei mercati e si è innestato in una fase congiunturale già caratterizzata da un aumento dei costi, in particolare dei costi energetici, che erano iniziati a salire nell’ultimo quadrimestre del 2021. Da allora è iniziata una rincorsa dei prezzi sui mercati che ha caratterizzato in particolare le grandi commodities.
I prezzi medi all’origine di frumento duro e tenero e mais, che da soli contano per 2,4 milioni di ettari, praticamente un quinto della superficie agricola utilizzata in Italia, i prezzi medi nazionali all’origine di tali prodotti sono aumentati rapidamente a cavallo del 2021 e del 2022. Poi invece è iniziata una costante parabola discendente, che ha portato i prezzi a livelli molto più contenuti sino ad oggi».
Senza però che ci sia stata anche una corrispondente discesa dei costi di produzione.
«Le difficoltà per i cerealicoltori sono proprio il calo dei prezzi, che prosegue inesorabile da mesi, ma a fronte di una sostanzialestabilità dei costi, che sono aumentati sino all’estate 2022 e poi si sono assestati senza particolari cali. Quindi si è ridotta la marginalità delle coltivazioni, con un problema concreto per la fiducia degli operatori e la prospettiva di investimenti futuri».
È una situazione comune ad altri Paesi Ue, è possibile che ci siano interventi a sostegno degli agricoltori?
«I maggiori vincoli imposti dalla Politica Agricola Comune, che aumenteranno dal 2024 con l’introduzione di nuovi adempimenti a finalità ambientale e di tutela della biodiversità e dell’ecosistema, sospesi nel 2023 proprio per tener conto del conflitto russo-ucraino e della instabilità dei mercati, aumenteranno gli oneri per le imprese agricole e irrigidiranno gli ordinamenti produttivi».
Quali rischi per il settore e i consumatori? Quanto siamo dipendenti dall’estero?
«Produciamo il 70% del grano duro che consumiamo ma solo il 35-36% del frumento tenero e poco più del 40% di mais. Cifre troppo basse che dovremmo in assoluto cercare di accrescere per evitare di dipendere dalle importazioni di materie prime strategiche». – r.am.