di Massimo Adinolfi. È passato un intero anno da quando Chat Gpt è diventato una presenza sempre più rilevante nelle nostre vite digitali. Questo modello di linguaggio basato su Gpt-3.5 sviluppato da Open AI ha dimostrato di essere una risorsa preziosa in una vasta gamma di contesti, dall’assistenza virtuale alla creazione di contenuti. E sì, avrei dovuto aprire le virgolette e chiuderle qui, perché questo è l’incipit dell’articolo (Un anno con Chat Gpt) che ho commissionato al sistema di AI generativa. Non una gran trovata: se ne sono visti molti, di testi del genere in giro.
Una roba più originale è questa: «La prima frase di un romanzo deve contenere un po’ dell’energia di un grido istintivo che provoca una valanga». Pure questo è un incipit, ma qui le virgolette le ho messe senza problemi: l’autore infatti non sono io ma Matei Vi?niec, autore di uno dei più bei romanzi dell’anno. Titolo (spero non vi venga il mal di testa): Il venditore di incipit per romanzi.
A questo punto, dall’inizio dell’articolo ci siamo allontanati abbastanza per domandarci se il problema da risolvere sia davvero l’originalità di cui i nuovi chatbot sarebbero capaci. Se gli chiedi di scrivere un articolo, una sceneggiatura o una comunicazione scientifica è indubbio, infatti, che Chat Gpt lo sappia fare; stessa cosa se gli chiedi disegni, progetti, o inedite composizioni musicali. E anche se ha, ad oggi, limiti evidenti, non v’è ragione di pensare che non possa ulteriormente affinare le sue capacità, eliminando progressivamente gli errori che ancora commette (ma chi non ne commette? Chi ne risponde, è semmai la questione).
Secondo Lincoln Michel – che su The New Republic ha provato a stilare un bilancio di quel che l’AI generativa ha saputo fin qui dimostrare, a un anno dal lancio di Chat Gpt – il punto non è cosa sappia o non sappia fare, ma come lo fa. Perché lo fa scopiazzando, rastrellando cioè in rete – con la più grande velocità e potenza di calcolo – tutti i dati di cui ha bisogno per generare i suoi contenuti: vedi la causa intentata dal New York Times contro Open AI. Il che vuol dire che il quesito ontologico – è roba originale oppure no? – può anche rimanere aperto, ma nel frattempo va sbrogliata la matassa giuridica ed economica: chi paga per cosa, chi detiene i diritti su cosa. Così almeno l’ha messa la Writers guild of America, il sindacato degli sceneggiatori che a Hollywood, a settembre, dopo mesi di sciopero, ha spuntato un ottimo contratto a tutela del lavoro umano, perché non venga sottopagato e, infine, soppiantato dalle macchine.
Resta però il fatto che, grazie all’AI, cresce enormemente la quantità di contenuti generati dai software. Autonomamente e senza alcuna spremitura di meningi. Alla fine, dice Michel, altre macchine saranno chiamate a discriminare immagini e parole riversate in rete. Già accade, ad esempio, con le mail che finiscono nel cestino senza che nessuno le abbia lette; accadrà pure col resto: «Questo sembra essere il futuro promesso dall’AI. Contenuti infiniti generati da robot, di cui nessuno gode, che intasano tutto e fanno perdere tempo a tutti».
Michel vede dunque un problema di quantità: la qualità (l’originalità, la creatività) rischia di esserne sommersa, ma rimane comunque fuori dalla portata delle macchine. Così la pensava anche Kant, che distingueva un’idea normale del bello, ottenuta per mera comparazione (oggi diremmo: processando statisticamente dati) da un’ideale autentico di bellezza, frutto di una potente e geniale intuizione. Ma per l’appunto: ci vuole una teoria del genio per non avere dubbi in proposito. Il guaio è che il genio è a sua volta qualcosa di misterioso, e non è mai una spiegazione felice quella che ricorre in ultima analisi ad un elemento insondabile, depositato non si sa come nella natura umana e per qualche motivo ignoto assolutamente non riproducibile, neppure dalla più sofisticata delle macchine.
In realtà, l’originalità sta altrove. Michel non è interessato alla questione ontologica, ma ha la sua importanza. Basta capire infatti che non è dentro di noi che va cercato il guizzo creativo, bensì nei dintorni, nel mondo circostante, per trarne una conseguenza politicamente importante. La nostra intelligenza – il nostro genio, se si vuole – non se ne sta chiusa dentro la scatola cranica, e il cervello non è una scatola nera e impermeabile: quello della macchina, invece, sì. Quello che noi facciamo, o pensiamo, non si definisce prima e fuori dal rapporto con gli altri e con l’ambiente. Noi abbiamo un mondo; la macchina, invece, no. Noi siamo in grado di dar senso al rumore che ci circonda; per la macchina il rumore resta rumore e va semplicemente eliminato.
Ecco allora la conseguenza: difendiamo la nostra preziosa unicità se difendiamo la ricchezza e la varietà del mondo, e con esso il diritto a lasciarci distrarre o annoiare da esso, a perderci o a rimanerne incantati. Tutti difetti che le macchine non hanno, non avendo però neanche la capacità di mutarli in pregi. Le macchine, insomma, non hanno mai mal di testa, gli uomini sì. E però ne sanno far pretesto per inventarsi almeno un incipit originale. E per rivenderselo.
La Stampa