Da dieci anni la spesa per investimenti pubblici in conto capitale è ferma per carenza cronica di risorse e rispetto a quelli privati siamo oramai ultimi in Europa, ci batte solo la piccola Irlanda. Tutto questo nonostante un Piano di investimenti per l’edilizia sanitaria da oltre 24 miliardi di euro, messi a disposizione dallo Stato con l’articolo 20 della Finanziaria del lontano 1988, ma utilizzato solo al 40%, denuncia la Corte dei conti. Che individua le colpe nelle procedure farraginose e nell’incapacità di realizzare progetti da parte delle amministrazioni locali. Gli stessi mali che ci fanno perdere decine di miliardi di cofinanziamenti europei.
La relazione pubblicata dalla Corte del Conti nel 2018 tratteggia un quadro impietoso che tale è rimasto in questi anni, tanto che sempre a quella montagna di denaro inutilizzata ha deciso di attingere ora il governo Meloni per finanziare case e ospedali di comunità depennati dalla lista dei lavori finanziati con il Pnrr perché in ritardo nella messa a terra.
I 90 milioni stanziati per le misure antincendio vengono poi giudicati “assolutamente insufficienti”,visto che ne occorrerebbero 3 miliardi. Peggio ancora va se ci spostiamo sul campo dell’adeguamento antisismico, poiché a riguardo “nessuna dotazione risulta essere stata destinata”. Non un piccolo particolare se si considera che il ministero della Salute, sottolineano ancora i magistrati contabili, ha stimato in non meno di 12 miliardi lo stanziamento necessario per la messa in sicurezza delle strutture ospedaliere. Poi ovviamente regione che vai situazione che trovi. Perché se alcune si sono date da fare per sottoscrivere gli accordi di programma, avviando così le ristrutturazioni, altre, come Lazio e Campania, “non hanno utilizzato circa il 68% delle risorse disponibili”. Pari a 1,1 miliardi nel primo caso, a 563 milioni nel secondo.
Ora, per dare una rammodernata ai nostri nosocomi arriva il Pnrr, che per la loro messa in sicurezza anche dal punto di vista antisismico e del rischio incendi mette sul piatto 1,6 miliardi, ai quali va aggiunto un miliardo e 450 milioni stanziati per gli stessi fini dal Fondo nazionale per gli investimenti complementari. Ma, come ha detto a “La Stampa” il presidente della Federazione degli Ordini dei medici Filippo Anelli, «l’impressione è che si stia procedendo un po’ a rilento e che occorra accelerare». Oltre ai medici lo richiede la sicurezza dei pazienti che in ospedale vanno per curarsi e non per rischiare la vita.
Del resto, basta incrociare i dati della Commissione parlamentare d’inchiesta sul nostro sistema sanitario e quelli della Protezione civile per rendersi conto di come stiano messi i nostri ospedali. Il 9% delle strutture (ovvero 75) risalgono all’Ottocento, nel 15% dei nostri nosocomi la prima pietra è stata messa quando i nostri bisnonni combattevano la prima guerra mondiale, mentre il 35% è stato costruito prima che finisse il secondo conflitto mondiale. In pratica 6 ospedali su 10 hanno più di 70 anni di vita alle spalle. E nemmeno ben portati. La Protezione civile denuncia che di manutenzione se ne fa ben poca, al punto che il 60% rischia di venire giù con un terremoto nemmeno troppo violento.
Oltre alle statistiche, gli esperti della Protezione hanno buttato giù in epoca pre pandemica anche una piccola black list degli ospedali pericolosi. Casi esemplificativi e non esaustivi, come quello del “Ss. Annunziata” di Napoli, classe 1889, senza manutenzione e investimenti, definito il più pericoloso della Regione. Ed è tutto dire, visto che sempre in Campania sorge l’Ospedale del Mare, che in realtà è a soli 7 km dal Vesuvio, ossia in “zona rossa” per la Protezione civile.
Ma c’è di più. Basta scorrere le cronache locali degli ultimi due anni per trovare tetti da cui passa la pioggia, muri pericolanti e intrisi di umidità o sistemi antincendio non funzionanti. All’ospedale di Polistena a Reggio Calabria sono state le mamme a fotografare sedie e porte rotte, oltre alle muffe, a fare da cornice ai loro figli ricoverati nel reparto di pediatria. Anche al Nord le cose non vanno per il meglio. Al “Sacco” di Milano è il sindacato Fials ad aver documentato qualche tempo fa pezzi del tetto del pronto soccorso venuti giù dopo un semplice acquazzone. Lo scorso anno era toccato invece proprio al nostro giornale riportare le immagini di crepe nei corridoi e pavimenti sbriciolati all’ospedale Molinette di Torino, dove negli ambulatori era invece crollato il controsoffitto.
Storie di ordinaria follia di una rete ospedaliera vecchia e malandata che richiederebbe di essere rammodernata al più presto.