L’articolo 33 della manovra non sarà cancellato. Il governo ieri ha detto un no chiaro ai sindacati convocati a Palazzo Chigi in un incontro durato oltre tre ore. Il taglio da 21,4 miliardi alle pensioni di 732 mila lavoratori pubblici in vent’anni resta. Ma avrà una doppia deroga, valida sia per i medici che per le altre categorie coinvolte: dipendenti di enti locali, insegnanti e ufficiali giudiziari, tutti con anni lavorati tra 1981 e 1995. Sono salvi quanti maturano i requisiti della pensione entro il 31 dicembre di quest’anno, anche se l’assegno ha decorrenza dall’anno prossimo. E salvi anche coloro che dal 2024 andranno in pensione di vecchiaia a 67 anni. La premier Meloni assicura poi «un ulteriore meccanismo di tutela» solo per i sanitari. «Stiamo valutando», dice.
Pensioni, cosa cambia: salva l’uscita per vecchiaia e ai medici tagli più leggeri. Ecco quando scatta la stretta sui rendimenti
I dettagli sono ancora da definire, così come i conti esatti delle platee e degli effetti economici. Ma sull’articolo 33 della legge di Bilancio, quello che taglia le aliquote di rendimento delle pensioni di medici, infermieri e altri dipendenti pubblici, il governo ha scelto la strada delle modifiche, che saranno essenzialmente tre. Dunque no allo stralcio del testo e no anche all’ipotesi di rinviarne nel tempo l’approvazione; via libera invece ad una significativa revisione della stretta. Resta da vedere se la mossa sarà sufficiente per la categoria dei medici, che ha lanciato l’allarme da subito e ha poi programmato lo sciopero a difesa delle proprie rivendicazioni.
APPROFONDIMENTI
Va ricordato che la misura contestata interviene su una norma del 1965, che in un contesto economico e sociale completamente diverso valorizzava favorevolmente i primi quindici anni di versamenti contributivi per queste categorie.
Lo schema era sopravvissuto a tutte le riforme previdenziali degli ultimi decenni: dal prossimo gennaio verrebbe sostituito da una “scaletta” decisamente meno generosa, che lega il rendimento pensionistico agli anni di versamento effettivi. Dopo le sonore proteste e i dubbi all’interno della stessa maggioranza, l’esecutivo ha iniziato a mettere a punto i tre correttivi.
I primi due riguardano la generalità degli interessati. Quindi i medici, ma anche gli infermieri e i dipendenti regionali e comunali, le maestre di asilo e gli ufficiali giudiziari. Per tutti loro viene stabilito che la “griglia” più penalizzante scatterà solo in caso di accesso anticipato alla pensione, mentre continueranno ad essere applicate le vecchie regole se l’uscita è per vecchiaia, quindi agli attuali 67 anni. Sempre per tutta la platea coinvolta, viene fissato un principio di garanzia: coloro che raggiungono i requisiti entro il 31 dicembre di quest’anno non saranno toccati dalle novità. Nella versione originale era invece previsto che fossero coinvolti tutti coloro che vanno in pensione dal primo gennaio 2024: il che renderebbe quasi impossibile evitare la “tagliola” perché anche facendo domanda in tempi immediati molto difficilmente questa verrebbe perfezionata entro fine 2023.
Infine come precisato dalla stessa Giorgia Meloni ci sarà un ulteriore cambiamento che però riguarda solo il comparto sanità: il taglio delle aliquote sarà meno pesante in prossimità dell’età per la vecchiaia, quando cioè gli interessati anche volendo avrebbero pochi margini per migliorare il proprio trattamento futuro prolungando l’attività lavorativa.
IL RISCHIO
La decisione di coinvolgere almeno nelle prime due modifiche tutte le casse previdenziali pubbliche menzionate nell’articolo 33 (poi confluite nell’Inpdap e quindi nell’Inps) risponde ad una chiara preoccupazione giuridica oltre che politica. Così come è scritta, la norma è a rischio di essere giudicata incostituzionale perché interviene sulla carriera pregressa dei lavoratori, mentre normalmente le novità impattano finanziariamente solo sul rendimento dei contributi successivi all’entrata in vigore della legge stessa; insomma sono valide solo per il futuro. Stabilire che tutto ciò valesse esclusivamente per una parte della platea avrebbe reso l’impalcatura normativa ancora più traballante e a rischio di censura da parte della Consulta.
Il costo della parziale marcia indietro sarà limitato nei primi anni ma via crescente in corrispondenza con l’aumento dei dipendenti toccati. Se le relative risorse non saranno trovate all’interno dei fondi che l’esecutivo si è lasciato di riserva in vista dell’esame parlamentare, allora potrebbe essere necessario attingere ad altre voci del capitolo previdenza; sul tavolo resta l’idea di inasprire lo schema di rivalutazione delle pensioni da applicare nel 2024. In ogni caso le correzioni dovranno essere trasportate in un maxi-emendamento governativo, che dovrebbe contenere altre correzioni probabilmente su temi meno centrali. Al momento non ci sono grandi spazi per interventi su altre misure pensionistiche, che fanno parte del testo, come Ape sociale e Opzione donna: quest’ultima, l’uscita anticipata con il calcolo contributivo riservata alle lavoratrici, sarà applicata in versione estremamente ridotta anche nel 2024. (Il Messaggero)