Il governo è pronto a correggere con un maxi emendamento l’articolo 33 della manovra, quello che taglia la pensione a 732 mila lavoratori pubblici in vent’anni e tra questi 55.600 medici. Ne parlerà questa mattina la premier Giorgia Meloni con i sindacati convocati nella Sala Verde di Palazzo Chigi. Sul tavolo almeno tre opzioni: escludere solo i medici dal taglio, posticipare la misura solo per i medici oppure salvare tutti i dipendenti coinvolti che vanno in pensione di vecchiaia, penalizzando però le uscite anticipate.
La quadra tecnica e politica non c’è ancora. Palazzo Chigi e l’entourage della premier, che fa capo al sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, non guardano di buon occhio alla soluzione suggerita dalla Lega di Matteo Salvini: posticipare per tutti di uno o due anni l’entrata in vigore del ricalcolo, senza grandi scossoni per le casse dello Stato. Si scatenerebbe di fatto una fuga dei pensionandi. Di sicuro l’idea di «ritirare l’articolo 33», auspicata dalla Cisl di Luigi Sbarra, non è nemmeno presa in considerazione. Anche a Cgil e Uil non piace l’esenzione mirata. Il Ragioniere generale dello Stato Biagio Mazzotta ha fatto però capire che per lo stralcio servono 2 miliardi subito, tanto quanto vale l’intervento nel suo anno di picco.
L’Ufficio parlamentare di bilancio, authority indipendente dei conti pubblici, ha spiegato nellasua audizione sulla manovra che l’articolo 33 consente allo Stato di risparmiare ben 21,4 miliardi al netto delle tasse fino al 2043. Per alcuni di questi lavoratori pubblici – dipendenti degli enti locali tra cui gli infermieri, medici, insegnanti di materne ed elementari, ufficiali giudiziari – significa perdere fino a tre anni di contribuzione, con un ammanco di oltre 3 mila euro all’anno. Palazzo Chigi intende però tenere il punto: «Eliminiamo le iniquità di vecchi parametri troppo generosi rispetto agli altri dipendenti», si continuaa ripetere.
Per non incorrere però nella doppia incostituzionalità di norma retroattiva e tolta solo ad alcune categorie, si punta a scriverla in modo da limitare nel tempo l’esenzione ad esempio dei medici, giustificandola con l’emergenza nella sanità e la necessità di trattenere quanti più sanitari possibili al lavoro. Nessuna fuga resta in ogni caso possibile entro il 2023, lo ha chiarito l’Upb. Perché il taglio opera sulle pensioni «con decorrenza dal 2024», quindi tutte. Anche quelle di chi fa domandaora, entro il 31 dicembre.
Sempre in tema di pensioni, ieri il ministero dell’Economia ha reso noto il tasso di inflazione di quest’anno a cui saranno indicizzate le pensioni nel 2024. Si tratta del 5,4%, in discesa rispetto all’8,1% applicato agli assegni del 2023 e peraltro non ancora tutto incassato (lo sarà il primo dicembre con il conguaglio dello 0,8%).
Il 5,4% applicato da gennaio viene assicurato in modo pieno però solo alle pensioni fino a quattro volte il minimo e quindi fino a 2.272 euro lordi mensili, con un beneficio massimo al mese di 123 euro lordi.
Seguono altre quattro fasce, fissate dalla prima manovra Meloni, che recuperano solo una parte dell’inflazione, via via sempre minore: si va dal 4,59% all’1,19% per gli assegni superiori a 5.679 euro lordi. Le fasce di Meloni sono una soluzione molto meno vantaggiosa per i pensionati degli scaglioni Draghi (che ripristinavano quelli Prodi). Il governo di destra si è assicurato così 10 miliardi netti di risparmi tra 2023 e 2025. Ma si sa, gli effetti sono permanenti. Perché si cumulano di anno in anno.
Repubblica